TRAMA
Un dialogo intimo che Herzog imbastisce con il viaggiatore-scrittore Bruce Chatwin, uno dei più grandi autori del Novecento. In Nomad Herzog ripercorre le tracce dei pellegrinaggi che Chatwin ha compiuto alla ricerca dell’anima del mondo, attraversando continenti con l’inseparabile zaino che ora appartiene a Herzog, e che diventa il terzo protagonista del film.
RECENSIONI
Nomad: Sulle orme di Bruce Chatwin, prodotto BBC, è l'ultima fatica documentaristica di Werner Herzog - anzi no: non ha senso, con il maestro bavarese, discriminare due insiemi impermeabili fiction / non fiction - ed è tantissime cose ma non una, che non avrebbe dovuto né potuto essere: un doc biografico dedicato a Bruce Chatwin. Chi volesse approcciare l'autore di "In Patagonia" e "Le vie dei canti" e farsi un'idea introduttiva per fatti salienti ordinati cronologicamente a proposito di uno dei personaggi più affascinanti, di uno degli scrittori più fortunati dei decenni recenti si rivolga altrove. Non è il genere di missione per cui viene convocato Werner Herzog. Egli parla agli iniziati. Nomad è in primo luogo una promessa mantenuta, un film sentito, sofferto e quindi atteso a lungo. Herzog e Chatwin furono amici, collaboratori e soprattutto anime gemelle. Questa recensione sarà il tentativo di inseguire un gioco continuo di specchi. Si conobbero in Australia nel 1983 mentre lavoravano rispettivamente a Dove sognano le formiche verdi e "Le vie dei canti". Narra la leggenda che un incontro presso l'aeroporto di Melbourne fece scaturire una maratona durata 48 ore nella quale i due grandi narratori - e parlatori - intrecciarono racconti senza soluzione di continuità. Qualche anno più tardi Herzog ottenne, soffiandoli niente meno che a David Bowie, i diritti cinematografici del "Viceré di Ouidah" che trasformò in Cobra verde, ultimo atto della collaborazione con un Klaus Kinski ormai completamente fuori controllo. Chatwin, già malato, visitò il set e fu deliziato dall'atmosfera di regalità, decadenza e follia. Era la loro un'affinità elettiva tanto profonda che, morendo prematuramente di AIDS nel 1989, Herzog ereditò l'oggetto più simbolico: l'iconico zaino di pelle, dove spesso aveva trovato posto "Sentieri nel ghiaccio", memoir herzoghiano di un'epica traversata apotropaica attraverso l'Europa gelata. Herzog prese in spalla, letteralmente e metaforicamente, l'ingombrante lascito tanto che, come atto magico, lo zaino compare in moltissime inquadrature di Grido di pietra, film che, fin dall'ambientazione patagonica, voleva essere un tributo obliquo all'amico morto. Uno degli aneddoti mitologici frequentissimi nella biografia del regista racconta che, intrappolato sul Cerro Torre da una tempesta di neve, si salvò dalla morte per assideramento anche grazie allo zaino, usandolo a modo di sedile e diaframma dal ghiaccio. Nomad arriva quasi trent'anni più tardi come secondo atto a chiudere il cerchio: è il tributo esplicito, finalmente.
L'elenco dei legami intellettuali, delle connessioni profonde tra i due grandi artisti sarebbe interminabile. Condivisero tanti luoghi e altrettanti temi. I più evidenti sono la passione per l'esplorazione, la predilezione per il viaggio a piedi, il riconoscimento del nomadismo come postura essenziale dell'uomo (specie e individuo) annichilita da una civiltà sedentaria destinata all'autodistruzione, la conseguente denuncia del colonialismo e dei genocidi culturali e fisici compiuti dall'uomo bianco, un'attrazione irresistibile per le origini, "una simile ricerca erratica di personaggi, sognatori eccentrici e grandi idee sulla natura dell'esistenza umana" e infine, per citare Rilke a sua volta citato da un'amica di Chatwin, "il coraggio per ciò che di più strano, più singolare, più inesplicabile possiamo incontrare". Nomad è quindi un dialogo ripreso da parte uno storyteller che sente la mancanza della voce complementare e vuole ridargliela, facendo parlare chi l'ha conosciuto e amato, i suoi luoghi, i suoi libri. Il film è diviso in capitoli e in luoghi, ognuno singolarmente significativo. C'è la Patagonia, il luogo del Grande Viaggio cominciato nella cameretta infantile, poi realizzato e trasformato nel Grande Romanzo da cui tutto prese abbrivio. C'è l'Australia di aborigeni e paesaggi minerali che parlano di origini e dissoluzione. Ci sono Avebury, luogo ancestrale di tumuli, e le Black Hills gallesi, paesaggio dell'anima, luogo originario per lo scrittore, baricentro su cui puntare un compasso che arriva a toccare i limiti del mondo e a cui tornare. Non a caso lì si trova Llanthony Priory, cottage e buen ritiro costruito addosso alle rovine di un'abbazia gotica dove ritrovare la moglie complice, concreta Itaca anglosassone dove riparare in seguito e nel mezzo delle peripezie fluide attraverso luoghi e corpi innumerevoli. Herzog si mette in viaggio in cerca di tracce superstiti in tutti questi punti di mondo che furono significativi per Chatwin in vita. Trova anche, a Punta Arenas, ancora puntato contro l'oceano, lo stesso relitto fotografato decenni prima dallo scrittore e la grotta del milodonte, nel frattempo divenuta attrazione turistica di massa proprio grazie a "In Patagonia".
Compiere moti a luogo è un modo efficace per riallacciare il dialogo con i defunti. È l'essenza del pellegrinaggio, sia esso laico o religioso. C'è però un altro stratagemma, che mette in gioco l'identità in modo più radicale: dar loro voce prestando la propria. Nomad è essenzialmente un doppio ritratto al modo del genere canonico alla pittura rinascimentale - i più celebri di Giorgione e Raffaello - il cui concept è dipingere un legame, un mutuo versarsi più che due individui giustapposti. Nomad è un continuo giocare con i pronomi: prima (non ricordo a memoria un film in cui Herzog cominci tante frasi scandendo "io") e terza persona si rincorrono e si fondono fino a confondersi. Non si capisce più dove finisca Herzog e dove inizi Chatwin e viceversa. Spesso Herzog racconta qualcosa di Chatwin, poi dà la sua versione dell'argomento e finisce sempre in una ripetizione o al massimo in una minima variazione su tema. Verlaine scrisse in "Laeti et errabundi", alla falsa notizia della morte di Rimbaud, "Morto? Suvvia! Tu vivi la mia vita!". Nomad finisce per avere più di Persona di Ingmar Bergman che del biopic. È poroso il confine tra tributo e autoritratto. Eppure - ed è miracoloso - rimane perfettamente fedele al suo (s)oggetto, tenendo il Chatwin storico sempre a fuoco, senza perdersi in un'aria mistica, in un afflato poetico ineffabile ma segnando piuttosto precise corrispondenze. A un certo punto Herzog, commentando la proverbiale, chiacchierata esuberante bisessualità dell'amico, liquida la faccenda con "I don't care (...) Bruce is Bruce" e si ha l'impressione stia affermando molto più di un semplice disinteresse sdegnoso verso il gossip. Dichiara che l'eccezionalità di una persona amata si afferma tautologicamente e attraverso verbi piuttosto che aggettivi. Verbi che rimettano in circolazione ciò che è stato, ciò che ha fatto. Per esempio a un certo punto, con immensa immutata ammirazione, esclama "he was the internet". Herzog vorrebbe riprendere un dialogo troppo presto interrotto con l'amico impareggiabile capace di mettere tutto in relazione con tutto, internet prima di internet. I due avevano in comune non solo le aree tematiche di interesse citate sopra ma, soprattutto, un'identica attitudine. Per entrambi il nomadismo come postura esistenziale si manifestava tanto nello spazio materiale quanto in quello mentale. Il viaggio per Chatwin (per Herzog) comincia e finisce fuori dai margini dello spostamento fisico e segue un diagramma per fasi di fascinazione, immaginazione, deriva e racconto. Luoghi, persone, oggetti hanno un ruolo centrale. Molto spesso gli oggetti sono transizionali: la "pelle di brontosauro" è l'innesco del viaggio in Patagonia, versione comica del mito di Giasone e gli argonauti, e innumerevoli sono gli oggetti pieni d'aura nella prosa come nella vita di Chatwin, che tra l'altro lavoro per Sotheby's. Ugualmente Herzog, quando gira, si incanta continuamente davanti agli oggetti e alle superfici, che filma indugiando e scrutando, seguendoli e perlustrandole come fossero animati. E ancora più peculiare è la relazione col paesaggio. Chatwin amava molto il lungometraggio d'esordio herzoghiano, Segni di vita, per la sua scena più significativa: il momento in cui il soldato raggiunge l'altopiano cretese, vede migliaia di mulini a vento in funzione e impazzisce. Coniò a proposito una definizione perfetta: "deranged landscapes". Sono infatti misteriosi, deliranti i paesaggi cercati da entrambi per tutta la vita. Paesaggi all'inizio o alla fine del mondo, meravigliosi e inquietanti, opere incorrotte di un dio in stato di grazia o di furia oppure anche paesaggi antropici a condizione che possiedano la stessa icasticità, la stessa incombenza di un senso morale o di un'assenza di senso di quelli dipinti da Brueghel. Herzog filma i luoghi chatwiniani facendo largo uso di droni e piega la tecnologia alla propria personale poetica. Le riprese non hanno l'effetto rendering comune all'uso e abuso corrente del mezzo, piuttosto imprimono lo stesso passo mitografico sul paesaggio che si trovava nell'incipit mozzafiato di Apocalisse nel deserto con le città kuwaitiane, il deserto, i pozzi in fiamme ripresi da un elicottero e Wagner.
I romanzi di Bruce Chatwin sono pieni di incontri, più o meno romanzati, quasi tutti indimenticabili perché ogni figura balena dettagliata nella sua specificità, nella stranezza che la fa originale. Sono romanzi affollatissimi, opera di un uomo socievolissimo (seppur con tendenze ascetiche: con Chatwin si tratta sempre di coesistenza di opposti) anche quando esplorava gli estremi del mondo. "Incontri alla fine del mondo" è un titolo di Herzog ma, come abbiamo visto, ciò che vale per uno si solito vale per l'altro. Il seduttore seriale creava un legame sensuale, intenso anche quando effimero e passeggero, con chiunque incontrasse nella realtà o nell'evocazione, che fosse donna, uomo, vivo, morto, Butch Cassidy & Sundance Kid oppure il garzone di un mandriano. Era un magnete polarizzato verso i freak, i disadattati, gli espatriati, i "disagiati nella civiltà". Così Herzog approccia le persone con una curiosità che non giudica. Dall'ultimo Herzog si trae l'impressione, come in Varda o Ozu, che il mondo sia popolato solo da persone amabili (solitamente amabili e freak, amabili perché freak). Anche stavolta, sulle orme di Chatwin e con la mente fissa all'amico, Herzog si lascia distrarre dagli incontri e guarda tutti con tenerezza: una coppia di mezza età che si fa fotografare all'ingresso della grotta accanto alla statua del milodonte, un bizzarro follower del geomagnetismo, capitribù aborigeni oltre ovviamente a congiunti e studiosi. Niente gerarchia: ogni uomo, ogni donna ritratta da Herzog (da Chatwin) ha una individualità propria in cui trova un'epica (anti)eroica. Herzog è invecchiato (benissimo) e ha compiuto un passo di lato. Ora più che gli eroi romantici - ma ricordiamo che fin dall'inizio per un Kinski c'era un Bruno - gli interessano gli antieroi comuni. Bruce Chatwin scrisse bestseller, poi fu oggetto di un culto tanto pervasivo quanto banalizzante orbitante attorno a operazioni di marketing (Moleskine, montgomery) e al tema generico del "viaggio", come se l'anatomia dell'irrequietezza potesse stare in un travel blog o se le ricerce antropologiche sulle origini del nomadismo, sulla radice antecedente al linguaggio che ha portato i sapiens a raggiungere gli angoli estremi delle terre emerse, potessero trovare posto nella caption di un tour operator. Poi, per qualche ragione, attorno all'inizio del nuovo millennio, proprio in concomitanza con la diffusione capillare dei viaggi low cost, il culto di Chatwin è improvvisamente declinato, permettendo tuttavia di riappropriarsi dello scrittore, liberato dai cascami. Chissà se il "documentario" herzoghiano segnerà un ritorno di fiamma. È più facile supporre che si tratti della chiusura di un conto, di un debito di riconoscenza privato, di un discorso tra convertiti e che Bruce Chatwin sia poco adatto ai tempi correnti. Troppo spregiudicato, troppo libero. L'ultima corrispondenza tra i protagonisti speculari di Nomad, che rende entrambi inattuali, è un ragionamento sul rapporto tra realismo e invenzione nell'arte. Chatwin fu spesso criticato in vita dai questurini della letteratura, antesignani di molta intelligentja woke, i quali, agitando gli scontrini, denunciavano i suoi travelogue come largamente rimaneggiati, manipolati e ricostruiti. Secondo Chatwin "la storia aspira alla simmetria del mito" perciò, giustamente, si prendeva ogni libertà ontologica necessaria a plasmare qualcosa che fosse più vero che reale riuscendo, come suggerito dal suo biografo, a "dire una verità e mezza". Ugualmente uno dei più celebri e fortunati pronunciamenti teoretici del regista bavarese è la distinzione tra il realismo, la "verità dei contabili", e una verità di ordine superiore che aspiri ad andare all'essenza dei fatti, la "verità estatica". Ho letto per la prima volta degli Wodaabe, popolo centrafricano di pastori nomadi, ne "Le vie dei canti" dove si annota come la loro massima esibizione di virilità ha a che fare col trucco e la danza, con canoni che i bianchi stanziali considerano effemminati. Quando poi vidi il documentario di Werner Herzog loro dedicato in cui si mostra la cerimonia annuale in cui i giovani maschi si truccano e agghindano e ballano per trovare moglie ebbi un senso vago di deja vu che solo in un secondo momento prese la forma della scoperta di un altro, ennesimo ponte tra lo scrittore e il regista. Herzog ci racconta che Chatwin si fece mostrare il film prima di entrare nel coma estremo e che le immagini estatiche, di una bellezza "strana, singolare, inesplicabile" che perseguita, della danza degli androgini pastori del sole furono l'ultima impressione sulla sua retina. Andò davvero così? Possibile ma, conoscendo Herzog, tutt'altro che certo. Sappiamo però che gli ultimi momenti del viaggio terrestre del nomade Bruce Chatwin non potrebbero avere più verità poetica e il dialogo fittissimo, durato una vita, dei due amici non avrebbe potuto concludersi in un silenzio più denso e evocativo. Quindi cosa importa se è una storia vera?