Noir, Recensione, Thriller

KILLER JOE

Titolo OriginaleKiller Joe
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2011
Durata103'
Sceneggiatura
Tratto dadall’omonima pièce teatrale di Tracy Letts
Fotografia

TRAMA

Piccolo spacciatore texano, Chris Smith è indebitato fino al collo col temibile fornitore Digger Soames. Accortosi che la madre con la quale abita e con cui litiga continuamente gli trafuga delle dosi di cocaina, Chris si reca dal padre Ansel proponendogli di accopparla per intascare il premio della sua assicurazione sulla vita: oltre a saldare il debito, i soldi della polizza serviranno a garantire il futuro della sorella minore Dottie che vive insieme ad Ansel e alla sua attuale compagna Sharla. Esecutore designato per l’eliminazione è Joe Cooper, detective del dipartimento di polizia di Dallas che arrotonda lo stipendio con prestazioni da killer e che, messi gli occhi sulla virginale Dottie, la esige come caparra nell’eventualità che qualcosa vada storto.

RECENSIONI

Di fronte a un blitz cinematografico così magistrale, sferzante e traumaticamente incisivo come Killer Joe chi scrive confessa tutta la sua difficoltà nell'astenersi da scomposte manifestazioni di giubilo in favore di un più indicato distacco critico. Il fatto è che chi, come il sottoscritto, reputa il noir il genere privilegiato per esplorare i recessi dell'animo umano non può che vedere nel diciannovesimo lungometraggio di William Friedkin l'inequivocabile conferma delle proprie ipotesi. Tratto da una pièce teatrale scritta e messa in scena nel 1993 da Tracy Letts (anche sceneggiatore del film) e girato digitalmente con una camera Arri Alexa in soli 26 giorni, Killer Joe intreccia difatti trama nera, tessuto sociale e ricamo psicologico in una pellicola dalle premesse elementari (l'omicidio per denaro) ma dagli sviluppi dissestanti (l'improduttività del piano) e dagli esiti totalmente paradossali (il rovesciamento dell’assetto familiare degli Smith).

Fin troppo facile fermarsi all’apparente convenzionalità dell’intrigo: sprovveduto spacciatore tenta il passo più lungo della gamba evocando scelleratamente il diavolo e trascinando nel baratro l'intera famiglia. Ma c'è di più, tremendamente di più in Killer Joe: c'è l'avidità che possiede tutti i personaggi (tranne l'ingenua Dottie che in fin dei conti tanto inoffensiva non è), la concupiscenza di Joe (che più che pedofila è paraincestuosa), il lassismo di Ansel (qual è il limite tra passività e connivenza?), l'opportunismo di Sharla (dove sta il discrimine tra scaltrezza e pubica sventatezza?). E sull'intera vicenda incombe la letterale impossibilità di conoscere l'altro da sé: ripetutamente interrogati sull'identità degli altri soggetti, i personaggi di questa tragedia sotto mentite spoglie di crime movie dichiarano la loro incapacità non solo a rispondere adeguatamente, ma persino a formulare una replica minimamente pertinente ('I don't know' è tutto ciò che riescono a pronunciare). Una miopia costitutiva e soffocante che costerà loro maledettamente cara ('It's suffocating me, I can't bear them anymore' recita una delle battute cruciali del film).

Ironia sardonica, sarcasmo raggelante e sfigurante sadismo ('Do you want me to wear your face?' sibila Joe a Sharla dopo aver minacciato di strapparle la faccia e indossarla a mo' di maschera), lo script di Tracy Letts funziona come un meccanismo di precisione infallibile, salvo consegnare la narrazione al demone della perversità in un'assurda, deforme (s)cena domestica con tanto di preghiera dagli esasperanti risvolti macabri. Un'inarrestabile progressione verso l'annichilimento reciproco che non risparmia neppure lo spettatore, negandogli beffardamente il sollievo rituale e riconciliante della catarsi. 'Caveat emptor' ('stia in guardia il compratore') è la massima proferita da Joe: sentenza che cristallizza in formula un universo in cui i rapporti umani dipendono integralmente dalla logica economica (non è affatto fortuito che a scatenare gli eventi sia l'assicurazione sulla vita della madre di Chris).

In ogni intervista Friedkin si è premurato di assegnare i pregi del film al testo di Letts e all'abilità degli interpreti. Non vi è dubbio che gran parte del merito sia da attribuire al lavoro del drammaturgo quarantaseienne (già sceneggiatore di Bug - La paranoia è contagiosa) e alle prove di un cast da incorniciare. Se la pièce di Letts, influenzata dai noir di Jim Thompson e vagamente ispirata a un fatto di cronaca, recapita al film una drammaturgia già perfettamente cesellata, Matthew McConaughey giganteggia sinistramente nella livrea di Joe, Emile Hirsch dà vita a un Chris di malconcia sfrontatezza, Thomas Haden Church (Ansel) sfodera un underplay di abbattuta comicità, Gina Gershon incarna una Sharla di manipolatoria oralità (sua la scena culmine del film: una 'pollatio' genuflessa alla tirannica sovranità di Joe) e Juno Temple abita l'eterea Dottie con straniante svagatezza.

Ma la direzione di Friedkin non rappresenta soltanto il valore aggiunto della pellicola, come il settantaseienne cineasta di Chicago vorrebbe farci credere: quadrata, spigolosa e urtante, la sua regia carica le immagini di vibrati western (la presentazione di Joe in una scacchiera di particolari), disegna rapaci volteggi aerei (l'accerchiamento di Chris da parte dei biker di Digger) e, complice il direttore della fotografia Caleb Deschanel, sciabola folgoranti squarci onirici di tenore lynchano (nel suo rimarchevole curriculum Deschanel vanta la direzione di tre episodi di Twin Peaks). Atmosfere western che, dilatate dalle sonorità aperte delle musiche di Tyler Bates, virano improvvisamente in incubo o degenerano repentinamente in falciante ecatombe sotto lo sguardo di una cinepresa glaciale e perforante come gli occhi di Joe ('Your eyes hurt' sussurra Dottie al mefistofelico detective). E sui titoli di coda, schioccante frustata elettrica, le note distorte e taglienti di Swamp Fox dei Southern Culture on the Skids.

Dopo il non entusiasmante Bug, inedito in Italia, lo scrittore Tracy Letts e William Friedkin, celeberrimo regista di film entrati nella storia del cinema (L'esorcista, Il braccio violento della legge, Vivere e morire a Los Angeles, tanto per citarne alcuni), tornano a collaborare e questa volta il loro incontro fa scintille. Siamo in Texas, territorio in cui la famiglia, Non aprite quella porta docet, ha già mostrato notevoli falle. Il punto di non ritorno è probabilmente Killer Joe in cui, senza troppi ripensamenti, un padre e un figlio decidono di fare fuori la ex-moglie dell'uno e madre dell'altro per intascare i soldi dell'assicurazione intestata alla figlia, anche lei consenziente al truce progetto. Ma per riuscire nell'intento occorre un killer professionista e qui entra in scena l'uomo del titolo. Ciò che più colpisce nella vicenda è proprio la caratterizzazione stupefacente dei personaggi, in grado di condensare in pochi tratti il peggio della natura umana, mettendo in evidenza pulsioni, contraddizioni, rabbia ed egoismi con uno stile irriverente, spumeggiante e ironico. La bellezza di un personaggio è nella sua imprevedibilità, che non significa incoerenza o voglia di stupire a tutti i costi, ma capacità di suscitare interesse in armonia con le premesse. E il nucleo familiare messo in scena da Friedkin è assolutamente sui generis fin da subito, ma si tratta di personaggi vivi, a cui non si smette per un attimo di credere. L'entrata in scena del killer Joe ha invece qualcosa di iconico. È come lo sceriffo corrotto che entra nel saloon e agguanta un boccale di birra, un pazzo furioso dai modi gentili e dalla voce profonda, e Matthew McConaughey riesce a scrollarsi di dosso il ruolo di seduttore per commediole dando vita a un personaggio davvero temibile, senza scrupoli e violento. Una notevole sorpresa. Quello che riesce a Friedkin è mantenere alta la tensione riuscendo anche a divertire e arrivando a spiazzare, quindi a disturbare, nel momento in cui induce a ridere dei personaggi e non insieme a loro. Anzi, proprio mentre per loro le cose si complicano notevolmente. Scritto per il teatro, ma trasformato da Friedkin in puro cinema, il film avvince, stupisce e non perde un colpo. Chi cerca interpretazioni, allusioni o rimandi all'attualità rimarrà deluso. Non pare questo l'obiettivo del regista, a parte ovviamente irridere la famiglia come covo di ogni trauma e insidia. Il film si sofferma infatti su una tragica galleria umana e scivola come se fosse un favola-noir ponendo particolare attenzione alla deriva a cui la perfetta, e crudele, sceneggiatura costringe i personaggi. Con grande fluidità, senso del ritmo e spasso. La scena del pompino con un osso di pollo si è già prenotata un posto nella memoria collettiva e il film è destinato a diventare un cult.

America's trade
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Noir torbidissimo, nella cui atmosfera allucinata il grande cinema di Friedkin sguazza fin dalle prime battute: notte fonda, pioggia scrosciante, il latrato di un cane, lampi, un ragazzo che urla fuori dalla porta di una casa e la macchina da presa che vaga, al suo interno, per mostrarla disabitata. Il regista si avvale ancora, dopo Bug, del drammaturgo Tracy Letts, adattando una pièce del 1993 (con Scott Glenn al posto di Matthew McConaughey) in un crescendo violento immerso nella paranoia e nel delirio, per poi sfociare in un pulp estremo. Il maledettismo di Friedkin sforna la memorabile scena orrifica della coscia di pollo brandita come un pene, in una situazione paradossale dove il marito tradito lascia picchiare la moglie ad un estraneo: fa coppia con il cosciotto d’agnello contundente di La Signora Ammazzatutti, ma il ghigno di Friedkin è solo inquietante. Il noir trasmuta in grand guignol, evitando di virare al grottesco come nel cinema di Oliver Stone: Friedkin sta sul filo dell’iperrealismo, al limite accosta una scena truce ad una velatamente ironica. Per nutrire, invece, il suo cinema fondato sulle paure ancestrali dell’essere umano, connota l’opera come una fiaba nera, con Killer Joe come lupo cattivo attratto dalla purezza, dall’ingenuità (che non è, necessariamente, bontà) della piccola Dottie. Un lupo che, progressivamente, colonizza questa famiglia disastrata (talmente “promiscua” che, all’inizio, è arduo stabilirne i ruoli) e diventa il simbolo di una forza maligna esterna partorita, però, da membri interni, troppo vigliacchi per assumersi la responsabilità delle proprie pulsioni (vedi la scena finale in cui i due “genitori” incitano Joe a uccidere il ragazzo). Finale aperto, dove l’innocenza o perde l’equilibrio e spara all’impazzata o, stufa di tale Caos, “uccide” con coscienza. “Un film sulla distruzione della famiglia americana” (Friedkin).