TRAMA
Manuel Gomez Vidal è un uomo politico benvoluto, di successo, ma estremamente corrotto. Quando un torbido caso legato ad un collega finisce sulla stampa, molti sono disposti a imputarlo come responsabile dell’intera vicenda.
RECENSIONI
Uno dei film spagnoli più apprezzati e premiati (7 Goya) nell'anno 2018 è Il regno di Rodrigo Sorogoyen, già autore di Che Dio ci perdoni e del cortometraggio Madre candidato all'Oscar, e si tratta di un political thriller con tutti i crismi. Dopo la terra bruciata del regime franchista che, a differenza degli altri totalitarismi europei, diffidava della settima arte persino come strumento di propaganda, il cinema spagnolo risorse come fenice con i grandi maestri da festival come Victor Erice e Carlos Saura, seguì l'identificazione pressoché mimetica con la movida madrilena e in particolare con il suo golden boy Pedro Almodovar e solo in tempi relativamente recenti ha cominciato a offrire al mercato globale thriller, gialli, horror e generico cinema di genere. Il regno segue un doppio binario in quanto storia calata nella realtà locale spagnola, specifica quanto la paella, il flamenco e le espadrillas messe insieme, che allo stesso tempo potrebbe essere trasferita letteralmente in ogni angolo del mondo. Questa ambivalenza si ritrova negli aspetti formali e registici. Il film inizia evocando Millenium Mambo: un personaggio fermo di spalle comincia a camminare pedinato in piano sequenza mentre attacca e monta un brano elettronico dal basso pulsante e incalzante che sarà cifra della colonna sonora. Ovviamente, le promesse di languido contemplativo estremo-orientale saranno disattese in meno di un minuto. La sinossi è presto riassunta: un potente vicesegretario regionale sta per fare il salto alla politica nazionale quando scoppia un gigantesco scandalo di corruzione che coinvolge lui e tutti gli esponenti locali del partito. Per salvare la sua posizione e la sua libertà sarà costretto all'azione (ossia all'action). Fin qui la storia non certo inedita e neppure eccessivamente originale. Tuttavia nei dettagli si trovano le chiavi specifiche usate da Sorogoyen per imporre al genere una propria impronta autoriale.
Più una cosa è importante, più sarà taciuta. Aleggiano sul film diversi anacoluti. Possiamo riconoscere, se abbiamo familiarità con paesaggi e architettura, Valencia e la sua regione (dove esplose veramente nei primi anni zero di un grande scandalo corruttivo) ma non sono mai nominate esplicitamente. E soprattutto in oltre due ore non viene fornito il più vago indizio per identificare il partito in cui milita il protagonista Manuel Lopez Vidal. Non sappiamo se sia di destra o di sinistra o di centro e non possiamo dedurlo da posture ideali perché ciò che fanno i suoi dirigenti/militanti/sostenitori/sponsor è puro, astratto esercizio di potere, traffico di influenze, saccheggio del pubblico per interesse privato particolare. "Il partito". Così viene appunto chiamato, con un generico sinistro, burocratico, opaco e minatorio come l'apparato sovietico o il castello kafkiano. Ci sono due possibili letture: una più semplice e "grillina", per cui nel mondo post-ideologico destra e sinistra servono identici interessi, è tutto un magna magna, sono tutti uguali e ci meritiamo Alberto Sordi. In seconda battuta si potrebbe trattare di uno stratagemma utile a una anamorfosi per cui il "sistema" (che di "partito", proprio come di "regno", si fa sinonimo) prende i modi, i mezzi, le funzioni e gli scopi delle organizzazioni criminali deformandosi mentre rimane se stesso. Recenti vicende italiane come Mafia Capitale o la Lombardia formigoniana, ad esempio, hanno proposto alla cronaca casi di corrispondenza esatta tra interi ambienti politici trasversali e criminalità organizzata. La classe politica de Il regno è un mondo di gangster a un livello separato dal mondo comune. La similitudine traslerà in corrispondenza letterale attraverso un crescendo parossistico.
La natura mafiosa dei rapporti di potere chiama una serie eterogenea di riferimenti, ispirazioni e suggestioni, tutti riferiti all'immaginario della malavita. Lo stile di Sorogoyen è vorace e ingloba residui di Michael Mann e John Woo come anche di Takeshi Kitano (fosse solo perché i rarissimi momenti contemplativi e suggestivi nelle vicende del partito/yakuza hanno luogo sulla spiaggia o in mare) e di Martin Scorsese (la magistrale scena faustiana della tentata corruzione del collega novizio e puro dietro il bancone di un pub vuoto è praticamente un pastiche). Un ulteriore paragone obbligato porta al cinema anfetaminico, ipercinetico, paranoide dei fratelli Safdie. Il ritmo è incalzante, la camera è mobile e non dà punti di riferimento (passa dal pedinamento alla soggettiva come un elastico), i piani sequenza sono lunghissimi ed estenuati fino a generare disagio fisico, ogni scena spinge avanti l'azione tanto in direzione dell'implacabile discesa agli inferi del protagonista quanto in senso spaziale e geografico, in un'esplorazione di un mondo sempre più marginale e esoterico, sempre più a fondo dentro gli anfratti bui e sporchi del mondo. Dagli uffici di un faccendiere a una fiduciaria di Andorra - geniale la caratterizzazione del mini principato pirenaico come il più sordido dei covi, quale forse è davvero - c'è sempre qualcosa di molto losco: l'ottimo lavoro sulle location riesce a convogliare negli ambienti (gli eleganti condomini brutalisti, gli opulenti interni di design, le gite in yacht) un senso di distinzione, di alterità, di separazione dal mondo simultaneamente verso l'alto (per censo, lusso, casta) e verso il basso (perché si vede e si sente sempre inequivocabilmente il sordido). L'ultimo parziale anacoluto riguarda i modi diegetici. Il film comincia insieme alla storia che racconta ma ne omette le premesse, il contesto che ricostruiamo poco a poco, pezzo per pezzo. Ci mettiamo del tempo a mettere insieme i frammenti e capire cosa stia esattamente accadendo e nel mentre l'inferiorità nei confronti del narrato rinsalda un fondo di disagio e un ulteriore ribadire, come in Kafka, che il mondo del potere è un mondo altro, impermeabile e ostile. Si tratta del primo di vari stratagemmi di destabilizzazione dello spettatore che viene lavorato, cotto, portato allo stato d'animo adatto per rispondere emotivamente a ciò che passa sullo schermo. Il cinema di Sorogoyen si appella alle viscere piuttosto che alla mente.
Il regno è la storia della caduta di un principe scaraventato dall'iperuranio nel fango dove è costretto a sporcarsi le mani. È interpretato da un eccellente Antonio de la Torre il quale, oltre ad avere la faccia da politico, fornisce un'ottima prova d'attore nella quale si mescolano la maschera sdegnosa e il crescendo di frenesia apoplettica. De la Torre si era visto, impegnato in un ruolo secondario, ne La isla minima, un'ottima opera di quattro anni anteriore, diversissima per stile e precipitati ideologici ma estremamente significativa nel segnare la strada di un cinema spagnolo che vuole intersecare un lavoro sui generi con un discorso apertamente politico e socioantropologico. Il film raggiunge il colmo, tanto in senso formale quanto ideologico, con le ultime scene. La ricerca dei taccuini nella villa di Andorra dove si sta svolgendo una festa è puro Safdie nel sadico incrementare conflitti e situazioni tese in scena mentre la regia non risparmia nulla, cominciando con i movimenti di camera, per creare immedesimazione tra pubblico e protagonisti e inoculare disagio e parossismo e claustrofobia passando per i neuroni specchio. Segue una sequenza letteralmente action di inseguimento in automobile in cui la temperatura del cinema epidermico di Sorogoyen si alza ulteriormente e, dai Safdie bros., passa in zona Tarantino se non Apocalypto di Mel Gibson. La calma segue la tempesta: il film tira le fila del proprio discorso ideologico con l'intervista televisiva finale. Ribadisce che il potere è un sistema chiuso, che protegge e sostiene se stesso ed è pronto a sacrificare i comprimari pur di sopravvivere. Per di più tutto è potere o gli è asservito e la responsabilità individuale si confonde nella responsabilità collettiva. Tutto è marcio, non ci sono eroi - non certo il corrotto e spregiudicato arrampicatore che propone come strumento di giustizia ciò che in realtà è vendetta e regolamento di conti; neppure la giornalista teleguidata da una regia che segue gli interessi dell'emittente, i quali coincidono perfettamente con quelli del "regno" con cui fa sistema. Un film cinetico, logorroico si chiude con un campo / controcampo di figure turbate immobili e afasiche (marionette più o meno consapevoli) forse colte nel primo momento di autocoscienza. È una morale cupa, cinica, disfattista e forse semplicistica e qualunquista ma il (debole, risaputo) messaggio sociale e politico conta molto poco, ne Il regno, rispetto alla maestria nel distillare linguaggi in atmosfere e viceversa e "suonare" l'emotività dello spettatore alla propria partitura.