Drammatico

IL PREZZO DELLA LIBERTÀ

TRAMA

RECENSIONI

New Deal, ripresa economica, moda e gossip. Nient’altro che immagini proiettate su uno schermo cinematografico, frammenti di cinegiornale di cui vediamo solamente il rovescio. Nel retropalco di un cinema, all’ombra trasparente delle ammalianti bugie si sovrappongono i semplici gesti di un’aspra quotidianità: un elaborato piano sequenza, nel corso del quale si passa dall’oro e dal velluto della sala alla strada fredda e sporca per poi salire fino a una camera densa di spettri musicali, introduce il film di Robbins [distribuito nelle sale italiane con indecente ritardo (quattro anni)] riassumendone alla perfezione forma (serrata, travolgente, coraggiosa fino all’impudenza e anche oltre) e spirito. L’allestimento dello spettacolo diretto da Orson Welles è il pretesto narrativo per una ricognizione, dura ma non vacuamente cinica, sui rapporti esistenti fra libertà di espressione (sentimentale, politica, artistica) ed esigenze economiche in un mondo congelato, dominato dalla disuguaglianza e dall’indifferenza reciproca: l’arte conduce lo spirito all’assoluto, ma il corpo, se non è adeguatamente nutrito, deve abbandonare la partita. Molto brechtiano, si potrebbe dire, e in effetti il film afferma che l’umanità (la parte più ricca, almeno) si alimenta di atti disumani (il commercio di armi e quadri che lega gli Stati Uniti ai regimi totalitari europei, il maccartismo ante litteram enfio d’arrogante ignoranza) e che una moneta da pochi centesimi, trovata per caso sotto una scarpa, modifica la morale di chi non può permettersi il lusso di non mangiare. O forse no. IL PREZZO DELLA LIBERTÀ (titolo infedele all’originale e, una volta tanto, non disprezzabile) può assumere la consistenza della contraddizione ferina, dell’applauso improvviso, dello sberleffo imprevisto (il pupazzo, anima nera del ventriloquo, alle prese con L’Internazionale), della pre/visione, lucida e per nulla rassegnata, di un futuro non meno buio di questo terribile passato (l’inquadratura conclusiva sfocia nelle luci della Broadway moderna). Un’opera militante (in primo luogo perché descrive l’arte come un “impossibile” connubio di festa e redenzione), a tratti ridondante, non di rado sopraffatta da tante figure illustri e troppe frasi storiche: ma la passione gioiosamente barocca della scrittura cinematografica (il prologo è una perla, ma la marcia verso il teatro, risolta con una veduta aerea, non è da meno), la lucente malizia dei dialoghi e il cast stellare (memorabile la contessa capricciosa e un po’ oca di Vanessa Redgrave, adeguatamente doppiata da Rita Savagnone) danno vita a un happening traballante, febbrile e malinconico, denso di annotazioni grottesche (i due allievi ventriloqui, la livida riunione anti – Teatro Federale, il ballo in costume settecentesco, specchio non deformante di una classe dirigente defunta, mummificata e incosciente), irresistibile nei brani tratti da The Cradle Will Rock (autentico musical à la Weill di Marc Blitzstein), tanto insolentemente classico da essere felicemente fuori moda.