TRAMA
Parigi 1967. Jean-Luc Godard sta distribuendo nelle sale La cinese con protagonista Anne Wiazemsky. Sposati e felici, la loro vita sentimentale e professionale viene messa a dura prova dopo l’accoglienza negativa del film, che provoca in Godard una profonda crisi.
RECENSIONI
Con Il mio Godard Michel Hazanavicius torna nel campo prediletto dell’esercizio mimetico e feticista, partendo dal libro autobiografico di Anne Wiazemsky (scomparsa proprio lo scorso ottobre): il regista inscrive il racconto del matrimonio e del sodalizio col maestro del cinema in una cornice brillante, richiamando l’estetica e lo stile del grande cineasta, senza essere interessato a sondarne la filosofia, ma carpendo dell’arte del nume della Nouvelle Vague i soli dati esteriori. Di questa deliberata operazione di superficie, molta critica, anziché premiare l’impertinenza, ha detto peste e corna soffermandosi più sull’oggetto dell’operazione (e il suo presunto sacrilegio) che sull’operazione stessa, laddove proprio gli analisti (critici e cinefili), conoscendo a menadito la fonte, sono i naturali destinatari del discorso citazionistico del film, del suo disinvolto fare metacinema sul metacinema.
La relazione tra Anne e Jean Luc viene dunque narrata attraverso capitoli che si richiamano alle didascalie tipiche dei capolavori di Godard di cui si riprendono i colori (gli inconfondibili cromatismi primari), carrellate e dissolvenze, la composizione delle inquadrature e la loro successione con collocazione incongrua dei soggetti, le dinamiche dei dialoghi nei siparietti della coppia (Une femme est une femme...), i dettagli corporali in macro, il bianco e nero e il negativo, gli sguardi in camera, la continua messa in crisi dell’impianto finzionale e via godardando.
La riproduzione delle marche dell’autore e di quell’interpretazione libera del verbo della Settima Arte che nutrì a fondo la Nouvelle Vague e il cinema mondiale, non si risolve solo in una pedissequa imitazione formale, perché viene acutamente usata per ossequiare il tono da commedia di un film di scrittura briosa che mette in scena, come sottolinea la titolazione italiana, non Godard, ma il Godard visto da Wiazemsky, quindi un Godard scrutato da una prospettiva faziosa, vissuto sulla propria pelle: una visione dichiaratamente condizionata e parziale, dunque, che solo tra le righe soggettive dice dei travagli del Nostro, del suo battagliare con le contraddizioni, delle insicurezze sentimentali, la cialtroneria, la tenerezza e la notoria stronzaggine, le debolezze borghesi, quel mantenersi in bilico costante tra lo stare nel sistema e porsene al di fuori. Un artista intento a dominare l’enormità del suo genio, disegnato con coraggio come una maschera comica (la bisbeticità, le folgoranti battute, i gag degli occhiali rotti e della colla sulle dita), splendidamente interpretato da Louis Garrel (che ne riproduce perfettamente la dislalia, caratteristica annullata dal doppiaggio: la visione in originale è fondamentale anche per la resa dei numerosi giochi di parole), centro divertito di una bagattella pop, di un virtuosismo tanto frivolo quanto intelligente che solo la stizza di una critica spocchiosa e più realista del re [1] può condurre su un terreno differente.
Del resto, come mi fa notare Alessandro Baratti, questo prelevare materiali provenienti da una cultura come puri significanti da manipolare liberamente non è, esso stesso, un omaggio a una pratica godardiana?
Ha avuto notizie di una reazione da parte di Godard?
No. Credo se ne freghi altamente.