TRAMA
Chicago, tre balordi si introducono in casa della famiglia Kersey, uccidono la madre e feriscono la figlia di Paul, stimato medico chirurgo che diventa un “giustiziere”.
RECENSIONI
Il cinema di Eli Roth solleva diverse questioni, probabilmente riassumibili nella domanda: è legittimo parlare di un cinema di Eli Roth? Non semplice rispondere. Se si decide di considerarlo un regista subliminalmente raffinato, che sotto una sarcastica superficialità cela metariflessioni degne di nota, si potrebbe rispondere Sì. Diversamente, No. Cabin Fever sembrava, effettivamente, l’analisi testuale finale (ossia il ritorno al testo) di certo Horror, con curiose e pertinenti derive lynchiane. Gli Hostel iniziavano a complicare la questione, coniugando scemenze ricevibili solo al secondo grado con evidenti tentativi (in gran parte riusciti, specialmente se guardiamo al secondo capitolo), di riflettere 1) sull’approdo del cosiddetto cinema estremo nei multisala e 2) sul posizionamento etico/emotivo dello spettatore, sballottato dall’immedesimazione in una vittima più o meno combattiva a un carnefice più o meno “giustificato”.
Poi sono arrivati The Green Inferno e Knock Knock, nei quali il secondo livello di lettura si è fatto sempre più evanescente, impalpabile. The Green Inferno, in particolare, con la sua banalizzazione/semplificazione del testo originario di riferimento (Cannibal Holocaust, parodiato e umiliato fino a renderlo una sciocchezza) ci porta direttamente a questo Death Wish, il cui originale sembra sottoposto a una omologa operazione di disinnesco a-problematico. Il film di Michael Winner, controverso e ambiguo, sembrava però consapevole di “sollevare questioni” (violenza urbana, giustizia privata) e inscenava sequenze foriere di genuino disturbo (lo stupro della figlia e l’uccisione della moglie di Charles Bronson / Paul Kersey);
il remake di Roth, apparentemente, ci scherza su. Se da un lato, infatti, l’irruzione dei tre malviventi in casa del Dr. Kersey ci mostra un Roth in forma dal punto di vista registico – la costruzione della suspense è scolastica ma efficace, con ottimo utilizzo del silenzio – dall’altro, quando dovrebbe esplodere il potenziale emotivo, il tutto viene edulcorato e si appiattisce su (innocui) parametri che un tempo avremmo definito televisivi.
Il parallelo tra le due sequenze è una buona fotografia del film tutto, che scivola via indolore, banale, privo di personalità. Bruce Willis gigioneggia sottotraccia, coi suoi caratteristici sorrisini, c’è un timido accenno alla social-izzazione delle gesta del Grim Reaper, qualche virata pseudotarantiniana (lo spot delle armi e il negozio di armi stesso), un paio di puntatine splatter a mo’ di marchio di fabbrica (la testa fracassata sotto l’auto) ma la sostanza rimane quella di un revenge movie non tecnicamente “brutto” ma anodino, solcato da un’ironia che appare sovente fuori luogo, e incapace di riflettere su alcunché. Anzi. Si potrebbe anche azzardare che sugli ipotetici temi sollevati, l’atteggiamento sia quello di una sospensione di giudizio talmente cerchiobottista da sconfinare nella paraculaggine propriamente detta. A meno di non andare a scavare/scovare un livello di lettura altro che (pre)veda nella leggerezza una sorta di intenzionale provocazione. Ma non siamo in vena di sovrainterpretazioni.