TRAMA
Terence McDonagh, ispettore della squadra omicidi del dipartimento di polizia di New Orleans, viene promosso tenente per aver salvato un detenuto dall’annegamento nelle ore immediatamente successive all’uragano Katrina. Nel soccorrere l’uomo, il poliziotto si fa molto male alla schiena e gli viene prescritto un forte analgesico. Un anno dopo Terence lotta per incastrare Big Fate, uno spacciatore che ha massacrato un’intera famiglia di immigrati africani, e combatte anche per dominare la propria dipendenza dal sesso, dal Vicodin e dalla cocaina.
RECENSIONI
Il cattivo tenente versione Herzog impone la lettura auto(rial)referenziale sin dalla trama. Personaggi provenienti dalla stessa matrice de La ballata di Stroszek finiscono ingabbiati nella trama di un noir, ma l'ineluttabilità delle premesse viene sarcasticamente disattesa. L'armonica di Sonny Terry (Hootin’ the Blues), che nel finale di Stroszek sbuffava sul loop del camioncino di Bruno e preludeva alla fucilata suicida, qui accompagna una beffarda rivalsa: amministrando a modo suo le logiche deterministiche e implacabili di un genere che non lascia (quasi mai) scampo, il Bad Lieutenant di New Orleans riesce, inaspettatamente, a rimanere a galla. Canzonatorio e strisciante (un serpente non può spezzarsi la spina dorsale), Herzog anagramma il suo cinema e il termine noir al tempo stesso, manipolando coscienziosamente i significanti del primo (non basta una fucilata ad accoppare l’estraneo, ce ne vogliono due: una per il suo corpo e una per la sua anima ballerina) e stravolgendo i significati del secondo (lo scacco dell’antieroe si tramuta in prolifica promozione). Sabotaggio semantico di irriducibile vitalità, nonostante i reiterati tentativi di soppressione poliziesca o repressione visionaria (l’alligatore investito sulla strada, le iguane sulla scrivania ignorate dai colleghi). Soltanto un altro personaggio, nel cinema nero contemporaneo, riusciva a orchestrare a proprio favore il caos che annichilisce ogni tentativo di sistematizzazione razionale, topos noir se mai ve n’è stato uno: eppure anche il protagonista di Crocevia della morte dei Coen rimaneva solo. Il compromesso di Herzog con Hollywood invece è assolutamente riuscito, a ghigno strafottente: a rigor d'allegoria Cage/Herzog volta le spalle agli squali (l’epilogo all’acquario) e usa i soldi di produttori/spacciatori per coltivare disegni personali (il bambino nel grembo di Frankie, emblema di progetti ancora da partorire) [1]. Nel suo primo exploit statunitense il tedesco si adagia sul meccanismo generico e lo irride, costruendo una narrazione sospesa, partitura costruita su rime e rimandi interni, irrisolta tra realtà e allucinazione, innestandovi limpide, stilizzate e superficiali firme poetiche, profanando la spiritualità malata del film di Ferrara mentre traccia per il suo protagonista una traiettoria contraria che porta cinicamente dal sacrificio al mero utilitarismo, e sconsacrando poi gli squarci metafisici del film originale, trasformati in esilaranti visioni lisergiche. Digressioni herzoghiane di maniera virate in demenziale e messe al posto di illuminazioni cristologiche. Cage? Vertebralmente perfetto.
Giulio Sangiorgio & Alessandro Baratti
[1] Anche se My son, my son what have ye done? pare ripetere il medesimo schema ludico, producendo questa volta l’ipnotica caricatura di temi e stilemi lynchiani sposati ai propri.
Inutile cercare citazioni, differenze e affinità con l’omonimo film di Abel Ferrara. È lo stesso Werner Herzog, in conferenza stampa al Festival di Venezia, a dichiarare di non conoscere il regista americano e di non avere mai visto nessuno dei suoi film. Non di remake si tratta, quindi, ma di opera a sé stante che con il film di Ferrara ha in comune solo il titolo e la deriva del protagonista, un tenente di polizia in servizio a New Orleans in totale dipendenza delle proprie pulsioni, esaltate dalla continua assunzione di droghe di ogni tipo. Qualunque siano le motivazioni di Herzog (girare un film a Los Angeles dove vive felicemente coniugato?), si fatica a identificare la necessità di un’opera continuamente incerta sul registro da adottare. L’andamento, sottolineato dalla bella colonna sonora di Mark Isham, è da noir, con un poliziotto, le sue rogne personali e un’indagine in corso, ma lo sviluppo passa da situazioni decisamente comiche e sopra le righe, dal sapore vagamente tarantiniano (la spassosa invettiva di Cage contro la vecchia in casa di riposo e la sua badante), a virate surreali che faranno la felicità soprattutto dei cinefili pronti a tirare in ballo il rapporto viscerale di Herzog con la natura (il serpente che apre il film, l’alligatore investito dall’auto e quello che osserva la scena dell’incidente, le iguane immaginate dal protagonista in preda a deliri psichedelici), e a trovate che si vorrebbero ironiche ma arrivano invece grevi (il balletto dell’anima di un pusher morto ammazzato, la leggenda del cucchiaio d’argento raccontata da Cage a una fin troppo docile Mendes, il finale smaccatamente caustico). Il problema è che la perplessità regna sovrana e lo sguardo d’insieme manca di una coerenza in grado di rendere l’opera, pur piacevole, anche compatta. Troverà comunque estimatori grazie a un Nicolas Cage totalmente in parte e molto bravo nel rappresentare, anche fisicamente (quella spalla perennemente abbassata), il punto di non ritorno del protagonista e all’aura di mito che avvolge il regista tedesco e la sua visione. Puramente esornativa, invece, la presenza di Eva Mendes.