TRAMA
Royal Tenenbaum e la moglie Etheline hanno tre figli, di cui un’adottiva, dotati e brillanti. I cuccioli Tenenbaum fanno della loro diversità il loro fregio, e conquistano successi e popolarità in età ancora puberale. Tuttavia, vent’anni dopo, l’incredibile famiglia è spaccata, ed i tre geniali Tenenbaum si rivelano creature fragili ed incapaci di affrontare la vita…
RECENSIONI
“Famiglia che vai, usanza che trovi” sembravano dire ogni sera gli episodi di una serie televisiva che aveva come protagonista una famiglia di diversi, uniti e felici nella loro diversità. Le tavole di Chas Addams le avevano dato vita, e il piccolo schermo ne aveva fatta una leggenda. Ora la Famiglia Addams ha dei successori, in una versione aggiornata comprensiva di divorzio, di corteggiatore di colore, di depressione, d’adozione, che certamente non rende grazia agli originali. Certo, Royal non è Gomez; ma il suo spirito goliardico, il vizio del fumo, il completo gessato, i baffi, ci richiamano fortemente alla memoria quella figura sorridente e stralunata. Però la sua meschinità di fondo, le sue camicie pastello e la sua tendenza poligama sono intrise della cultura pop-trash degli anni 80, comprensiva della sua redenzione finale (solo una volta fallita la redenzione strumentale). Certo, Etheline non è Morticia; eppure, quel suo occuparsi personalmente dell’educazione dei figli, quel suo essere angelo del focolare, il suo essere Anjelica Huston (che già incarnò Morticia nei due film di Barry Sonnenfeld che rievocarono il mito negli anni 90), ci ricordano fortemente quella figura un po’ tanguera un po’ melò, tanto malinconica quanto passionale. Però il suo pragmatismo, la sua mancanza d’ironia, le tinte pastello dei suoi rigorosi tailleur sono coerenti con Royal, e sul palato lasciano un vago senso d’incompiuto. Certo, Pagoda – il maggiordomo indiano – non è Lurch; eppure, quel suo silenzio complice, quel suo essere parte delle vicende di famiglia pur non facendone parte, ci sembra di averli già visti. Però la sua fedeltà a Royal non è incondizionata, non è genuina, e inevitabilmente prevede dei conflitti. Certo, la doppia coppia di figli (due figli naturali, più una figlia adottiva, più il figlio dei vicini che si fa praticamente crescere come un Tenenbaum – e ne pagherà lo scotto) non rispecchia fedelmente Pugsley e Mercoledì nemmeno numericamente parlando. Eppure c’è qualcosa in Margot – la depressione nel suo sguardo, il suo aspetto bon chic bon genre che tuttavia tradisce una scintilla di violenza – che ci fa affiorare alla memoria ricordi di quella ragazzina dalla pelle candida e dagli occhi grandi e un po’ inquietanti. Però la creatività di Margot è introiettata fino all’autodistruzione – segnalata esteriormente dalla mutilazione – mentre Mercoledì la proietta al di fuori, mimando la madre e decapitando le sue bambole, silenziose compagne di gioco. Certo, nessuno dei piccoli/adulti Tenenbaum è Pugsley, eppure in ognuno di loro – legittimo o no – vive qualcosa del ragazzino soprappeso, con la sua crescita congelata, i suoi esperimenti crudeli (vedi i topi dalmata), ed il suo essere unico compagno possibile per la sorella (vedi il doppio legame, incestuoso o meno, stretto da Margot con i “fratelli”). Eppure i maschi Tenenbaum non conservano la loro originale genuinità, invecchiano corrompendosi, si disilludono, si piegano alle leggi del tempo disconoscendo la genialità del loro stato autentico. Ovvero, l’essere speciali non li aiuta a sovvertire la natura umana, ed essi ne restano inevitabilmente impigliati, incapaci di essere semplicemente dei personaggi.
Qualche anno fa il Festival Cinema Giovani di Torino presento' il lungometraggio "Rushmore". Nonostante gli ampi consensi ricevuti, il film in Italia non trovo' la via della distribuzione, ma il regista Wes Anderson, sulla scia del grande successo di critica internazionale, fu confermato giovane talento del cinema americano. Non e' un caso quindi che l'opera terza (il debutto e' del 1995 con "Un colpo da dilettanti") arrivi con un cast "all stars" disposto ad accettare una paga sindacale pur di aderire al progetto. In realta', ne "I Tenenbaum" si riscontra lo stesso disequilibrio dell'opera precedente: qualche idea carina in mezzo ad una storia che procede zoppicante, tra tempi morti e situazioni prive di effettivo interesse. L'idea di inventare una saga familiare fingendo la derivazione letteraria e' divertente, ma fin dall'iniziale presentazione dei personaggi, non scatta la necessaria complicita'. Tutto sembra ruotare intorno ad una sola idea: il rancore di tre figli, un tempo geniali, nei confronti del padre. L'originalita' sta tutta nella messa in scena e nella ricerca visiva che accompagna ogni singola inquadratura, ma il glamour dei dettagli prevale sul racconto. Simpatica l'identificazione, quasi fumettistica, dei personaggi con il loro abbigliamento, l'ambientazione in una New York fuori dal tempo, l'inserimento di vignette flashback, le scelte musicali, ma sembra piu' di partecipare ad una mostra celebrativa dello stile vintage, che a un film capace di intrattenere, o comunque interessare, per le due ore di proiezione. Sono proprio i dialoghi a cadere il piu' delle volte nel vuoto e non aiuta di certo la caratterizzazione monolitica dei personaggi. Basta pensare alla madre, interpretata da Anjelica Huston, donna energica, vitale e risoluta, perno dello sfilacciato nucleo familiare, che risulta assolutamente trasparente nell'economia del racconto. Ma un po' tutti i personaggi risentono dell'approccio intellettuale al progetto e restano figurine sospese in un album di fotografie mai davvero comunicativo. Si sorride qualche volta e si ride ad una sola battuta, pronunciata dal bolso Bill Murray dopo essere venuto a conoscenza dei tanti amori della perfettamente in parte Gwyneth Paltrow. A meta' strada tra la totale liberta' espressiva ed i vincoli di un racconto che pone problematiche concrete, il film non riesce pero' a conciliare i due aspetti. Alla fine restano in mente le tute rosse di Ben Stiller e prole, la pelliccia e le sigarette di Gwyneth Paltrow, la fascia da tennista di Luke Wilson, i completini pastello di Anjelica Huston, ma dei loro problemi familiari e delle tensioni emotive che li condizionano, non resta traccia.
L’Orgoglio degli Amberson (o Julien Donkey-Boy) secondo Wes Anderson: stesso inizio con voce fuori campo che introduce i personaggi, sebbene qui il regista li distingua con uno strumento musicale come la favola “Pierino e il lupo” musicata da Prokofiev. Quel che incanta da subito, nell’universo genialmente fantasioso del regista, è la cura maniacale ed espressiva del dettaglio, ad esempio: i Tenenbaum vestono solo anni settanta, per dire che “sono rimasti indietro”; la presenza di un beagle e di una canzone da un lungometraggio televisivo di Charlie Brown dichiara che lo stile, il “mood” della pellicola è preso a prestito dal mondo di Schultz (ma anche da La Famiglia Addams: famiglie che vivono in mondi paralleli); nonostante le tematiche depressive, gli interni hanno colori squillanti-pop iperrealisti, mentre didascalie, divisione in capitoli, musiche anomale e flashback contribuiscono a comporre figure da ilare cartone animato. Centrale, nella poetica di Anderson, è il rapporto padri/mentori-figli: per quanto la divertita ferocia renoiriana da La Regola del Gioco non manchi, il regista è più interessato ai legami affettivi ed ai sentimenti coinvolti, uguali per tutte le classi. In questo quadretto parentale dove, paradossalmente, tutti sono “pecore nere”, le situazioni sono grottesche ma le riflessioni sottese sono molto più ponderate e argute che in apparenza: e non è facile restare così in equilibrio fra tenerezza, bizzarria e buffoneria.