
TRAMA
Glen Topher è uno scrittore televisivo di successo che accoglie la figlia a vivere con lui, la diciassettenne China. La ragazza si avvicina a Leslie Goodwin, un grande regista sospettato di pedofilia.
RECENSIONI
Ognuno ha delle perversioni, ma le vostre non sono uscite sui giornali.
Louis C.K.
Per spiegare a un alieno appena arrivato sulla Terra chi è Louis C.K. basta organizzare una proiezione: la quarta stagione della serie Louie, dall’episodio quattro all’episodio nove, il blocco narrativo intitolato Elevator. Louie incontra Amia, una ragazza ungherese che non parla la sua lingua: se ne innamora e costruisce un’ipotesi di relazione basata su segni e gesti, ovviamente fallimentare. Nell’arco di poco più di due ore Louis C.K. convoca Truffaut e Michel Gondry, il melò e il postmoderno, e perfino la semiotica, con il linguaggio visivo che sostituisce quello parlato e riporta indietro al cinema muto. Per questo, dopo tutto un rapporto “sordomuto”, particolarmente struggente è il dialogo indiretto con il cameriere ungherese che traduce i messaggi dei quasi amanti, ma solo per dirsi addio. E per scoprire che i due non si erano parlati, ma si erano capiti. Eccola con una metonimia, con una parte per il tutto, la devastante profondità raggiunta da Louis C.K. che è stato, semplicemente, un maestro. Nel primo lungometraggio per il cinema il comico guarda a Woody Allen filtrato dalla Hollywood classica: nel bianco e nero geografico di Manhattan e tematico di Celebrity scorrono i titoli di testa anni Trenta e la scritta The End, sullo sfondo dell’ennesima New York inquadrata da carrelli e panoramiche.
Dall’inizio I Love You, Daddy è un film che vive di stereotipi rifatti, riscritti e rivisti: c’è la lolita di Chloë Grace Moretz dal nome esotico, China, che esordisce in costume da bagno; c’è il regista famoso, Leslie Goodwin, uno che vince bene, ovvero Malkovich che rifà Malkovich che fa il visconte di Valmont; c’è la ragazzina viziata che finisce nelle mani del sospetto mostro, dentro uno star system superficiale e grottesco, con l’opera sempre fuori campo (si scrive ma non si vede mai ciò che si è scritto); c’è Louis C.K. che ribalta solo apparentemente la sua figura, interpretando Glen, un autore affermato e ricco, che alla fine della parabola dovrà accettare il declino e tornerà il Louis C.K. “di sempre”, incastrato in un’eterna luna calante tanto malinconica quanto esilarante. “Se una ragazza dice I love you, daddy stai facendo qualcosa di sbagliato”, teorizza Pamela Adlon, amica e sodale di sempre, le cui apparizioni illuminano, letteralmente danno luce al racconto (vedete la sua splendida serie sottovalutata: Better Things). C’è la diva incinta, che Glen ingaggia e non solo, scrivendo per lei la parte come fece Allen per Mia Farrow in Un’altra donna; ci sono assistenti ansiose, ex mogli, stanze lussuose e uffici di produzione, c’è lo scrittore che enuncia parolone vuote (“La poesia nasce dai nostri difetti”) e mette in parodia l’intellettualismo di oggi. C’è la satira del nuovo femminismo, nell’unica sequenza metacinematografica in cui padre e figlia vedono un film, un’emancipazione ambigua alla Revenge, una rom-com che diventa horror la definisce Glen, e la figlia risponde: “It’s feminism”. E Glen/Louis C.K., avvitandosi coenianamente nelle sue sciagure, arriverà a scusarsi con tutte le donne: “I’m sorry, women”.
Si va di stereotipo in stereotipo, di già visto in già visto. Tutto è sfacciato e palese. Il presunto meccanismo comico è interamente affidato alla preoccupazione di un padre inadeguato nei confronti della figlia in pericolo. E resta presunto, perché I Love You, Daddy non è una commedia. È un luogo in cui Louis C.K. frammenta la sua personalità, i suoi problemi e li distribuisce nei personaggi: il celebre cattivismo è incarnato dal Ralph di Charlie Day, incontenibile, e l’irrefrenabilità del desiderio trova nel Leslie di Malkovich una quintessenza. Il film è dunque una questione personale di Louis C.K., una videoanalisi di sé: la storia di un falso sospetto, come l’episodio Bright and High Circle di The Romanoffs, la storia della voce che si sparge. I personaggi parlano e straparlano, si arrovellano, si incartano sul “e se...”, ma alla fine non è successo nulla: Leslie non molesterà nessuno perché era China ad esserne innamorata, con tanto di criptomessaggio garantista (“Se leggerò sui giornali qualcosa su di te non ci crederò”). Ma attenzione: è più complesso di così. Con la consueta crudeltà nei confronti di se stesso, Glen/Louis C.K. fa il moralista con la figlia mentre ha una relazione con l’attrice, mentre il lavoro tracima nel privato. Guardare verso gli altri è lo schiocco di dita che ci distoglie da noi stessi. Dal nostro fallimento. Lo capisce Glen che va alla cerimonia degli Emmy per cui non è nominato, e infine il racconto assume la forma della difficile ma tenera riconciliazione tra padre e figlia. Il discorso di Louis C.K. è interessante proprio nell’esporsi sfacciato, nel messaggio goffo, nelle parodie sterili: il comico non fa ridere, è quasi mesto, rassegnato. Il problema è che non trova una traduzione cinematografica: perché un film non è una collezione di episodi né una catena di topos. Scrive Woody Allen nell’autobiografia A proposito di niente: «Danny (Simon, ndr) mi insegnò a buttare via anche le mie battute migliori se in qualche modo rallentavano il racconto». Ecco quello che manca a Louis C.K.: il tempo del racconto, il ritmo del film, il terzo passo dopo Louie, insomma la capacità di abitare lo spazio cinematografico come ha fatto con quello seriale. Louis C.K. parla sempre delle sue ossessioni, del suo io tormentato: ma intorno non ci fa un bel film, peccato. Rimane il più grande comico americano della sua generazione. Il resto è oltre lo schermo.
