TRAMA
Il povero Saleem e il ricco Shiva, nati nello stesso momento, vengono scambiati nella culla. E’ mezzanotte del 15 agosto 1947: l’India diventa indipendente.
RECENSIONI
Premessa evidente: una delle maggiori registe indiane, Deepa Mehta (reduce dal successo di Water del 2005) incontra lo scrittore indiano per eccellenza, Salman Rushdie, entrambi “fuggiti” in Occidente. Oggetto dell’unione è il primo vero acuto di Rushdie, I figli della mezzanotte del 1981, trasposizione più volte ipotizzata e abortita, sia per la mole (525 pagine nell’edizione Mondadori) che per lo sforzo produttivo nel rappresentare 60 anni di Storia indiana (1917-1977): si racconta che Rushdie abbia ceduto i diritti per la cifra simbolica di un dollaro. Come ogni premessa - però - bisogna poi vedere “dove porta”.
La trama suggerisce un chiaro significato, basato su una corrispondenza come perno dell'intreccio: la parabola di Saleem è la storia dell'India, paese che dopo l'indipendenza (si dice letteralmente) aspirava a un futuro di libertà e autonomia ma fu coinvolta in nuove guerre, dittature, persecuzioni. Vita di Saleem/destino di Stato, dunque, con il protagonista che si ritrova diseredato ed espiantato, fugge dalla sua terra, è perseguitato, infine vi ritorna per allevare un figlio. Il Rushdie sceneggiatore sostituisce il racconto in flashback del libro con una semplice voce fuori campo, sfronda il romanzo tagliando pagine e personaggi, ma ne mantiene il senso: nascita e biografia di una nazione innescata dal topos dello scambio in fasce, curiosamente come Il figlio dell'altra; stavolta la sostituzione non è casualità ma atto politico (scambiare il ricco con il povero) anche se, come per Lorraine Lévy, a certificarlo è la biologia del Dna. Da qui il movimento a chiasmo dei protagonisti, Saleem e Shiva, che si incrociano e scambiano posizione (ricco/povero - povero/ricco), hanno gli stessi poteri, vivono la stessa storia, frequentano la stessa donna secondo opposti lampanti: Shiva è il lato oscuro.
Il film è un caleidoscopio che contiene l’India (l’autrice ha citato perfino Il Gattopardo), all’insegna dell'ellissi, zapping tra storico e immaginifico, screziato di sofferenza ma in ultimo ottimista. Deepa Mehta raccoglie il realismo magico a disposizione, ma l’accumulazione di fatti, uomini e luoghi è troppo per la sua capacità sintetica: alcuni stralci sono saldamente governati (l’intero inizio sul fiume Dal, che si chiude con la visita medica “erotica”), l’archetipo rivitalizzato con tratti essenziali e scheletrici (dall'invisibilità alla formula abracadabra), ma altri punti suonano decisamente irrisolti o tirati via (la macchietta sbozzata di Indira Gandhi). L’opportunità fantasmatica non viene colta a dovere, in quanto le apparizioni dei bambini sono più cartoonesche che realmente ombrose e ossessive. Figure principali riposte in fretta (sia Parvati che Shiva - il solito incidente stradale), chiusura tardiva che si allunga nel finale circolare. Regista politica, asciutta nelle intenzioni ma prolissa, Mehta vive la contraddizione tra pellicola come militanza e comodità estetica di Bollywood: perché - tutto sommato - è facile aderire al codice, come qui accade, vedere tutte le riprese etnografiche e squarci musicali. Epica orientale per occidentali, avvolta nella sontuosa scenografia di Dilip Mehta (fratello della regista), I figli della mezzanotte è sempre in bilico: tra sguardo autoctono ed esportazione, tra esilio artistico e fuga per sopravvivere (proprio come Rushdie), tra urgenza drammatica e operazione combinata. Anche nel e sul proprio paese.
