TRAMA
Film biografico basato sulla vita di Sidonie-Gabrielle Colette, una delle figure più influenti della letteratura e dello spettacolo nella Parigi del Novecento, nota semplicemente come Colette.
RECENSIONI
«La Chiesa cattolica le rifiuta i funerali religiosi, così la Francia le accorda le esequie di Stato», racconta Angelo Molica Franco (A Parigi con Colette, 2018), con l'aria di dispetto contenuta in quel "così" in cui tornano a scontrarsi Stato e Chiesa, Francia e morale, ma in cui la Colette scrittrice, reporter di guerra, membro dell’Académie Goncourt, Grand Ufficiale della Legion d'onore vince sulla Colette attrice del varietà-divorziata-libertina-bisessuale-ghost writer di opere usurpate dal marito, che tuttavia costituisce materiale più frizzante e più piccante per il grande schermo da parte del regista di Non è Peccato, Porn Academy e Dr. Jerkoff & Mr. Hard. Che racconta una Colette bellissima, fascinosa, determinata, vittoriosa e britannica. Ovvero perde di vista la Belle Époque, lascia Parigi sullo sfondo, circoscrive il discorso agli interni, alle case, alle stanze, opta per i modi del romanzo sentimentale inglese con la storia di una ragazza di campagna che approda alla capitale, soffre, si adegua, impara a giostrarsi nel nuovo ambiente, si integra, si riscatta; sovrappone il broncio di Keira Kneightley e il suo corpo sottile degno di Coco Chanel alla rotonda e mangiona Colette che, a dire il vero, nella società del tempo piena di turbini, eccessi, eccentricità e circoli d’artisti, sguazzava, e ben volentieri era venuta via dal chiuso ambiente di provenienza, pur ricordandolo vividamente.
Nelle stanze private si consumano ménage sensuali e conflittuali, nati da cenni e occhiate lanciati nel bel mondo (e nel demi-monde), avvolto in una luce calda, preziosa, intima, un godimento di scenografie e neonata elettricità, in cui si alternano tagli di capelli sempre più à la page e splendidi abiti frutto di lunga e meticolosa ricerca, che la costumista Andrea Flesh definisce, a ragione, «simple and chic, but a little tomboyish» (semplici e chic, con un tocco mascolino), che, neanche a dirlo, Keira veste magnificamente. Manca invece un’immersione autentica in quel mondo di meraviglie e malvagità che era il mondo dell’arte che in quel primo Novecento si sfogliava, spogliava e sfogava in tutto il suo splendore fra pagine e salotti e che aveva le ore tragicamente contate (il resto è Storia).
Tuttavia, Parigi si affaccia efficacemente alle porte della storia personale di Colette in cenni brillanti, se pur del secolo precedente: boccheggia in un party la tartaruga incastonata di pietre preziose che cita À rebours di Huysmans, lavorano alla luce del giorno I piallatori di parquet di Cailebotte. Ma ruba la scena al film stesso la riproduzione della pantomima Rêve d'Égypte, realmente e scandalosamente rappresentata nel 1907 con quel bacio saffico che ne determinò la censura, in cui una Keira-Colette danzante, sensualissima e ipnotica si esibisce in teatro, ma ricorda il cinema muto e le sue muse. Di cenno in cenno, il dramma personale della giovane Colette si risolve in camera da letto e alla scrivania, nella schiera delle Claudine, serie di romanzi che diventano donne in serie (abbigliate come la protagonista, la scolaretta Claudine), tutte potenziali amanti, seriali, del finto autore Willy-marito di Colette, una sfilata ammiccante, piena di erotismo dal colletto inamidato, che si somma al bagaglio di fantasie romanzesche, biografia e autobiografismo del film, che viaggia in direzione dell'emancipazione, del divorzio e della riappropriazione dei diritti d'autore da parte della protagonista. Ma Colette non era solo varietà e ménage à trois e non era nemmeno un'eroina del divorzio e detestava le suffragette, forse perché il suo "femminismo" era un dato di fatto. Certamente, è più facile rappresentarla così, con una strizzata d’occhio qua e là, con un marito volgare e bamboccione che non risparmia le sue flatulenze alla moglie romanticamente conquistata e che fa sesso con l'amante verso la quale l’ha sospinta, detestabile, ma non cattivo, che però merita una rivalsa che non tarderà ad arrivare. Più facile che dipingere la Colette che patì quel marito fino ad ammalarsene, che di amanti ne ebbe infiniti, uomini e donne, ma che scrisse dal fronte, conobbe D'Annunzio, accolse Truman Capote che volle conoscerla; capace di reinvenzione continua, aprì perfino un salone di bellezza e, senza sospettare forse nessuna delle due cose, fu pessima madre e penna eccellente e non si fece mancare nemmeno il plauso di Proust per il suo Mitsou, altro che metoo. C'era una volta Sidonie-Gabrielle Colette, detta Colette; e poi c'è un film anch’esso detto Colette, che però non ne è che -volutamente- una piccola parte, narrata efficacemente e con piacevole ruffianeria, ma tant'è.