Drammatico, Recensione

I DEMONI DI SAN PIETROBURGO

TRAMA

Nel 1866 Dostoevskiji sta dettando Il giocatore, ultima chance per pagare i suoi debiti, quando il paziente di una clinica psichiatrica gli annuncia l’incubazione di un attentato rivoluzionario.

RECENSIONI

Cosa vuole fare Giuliano Montaldo, fuori sala da 18 anni - su idea di Konchalovsky ( La casa dei matti): una somma riconoscibile di squilibrio mentale e sociale -, è chiarissimo: un film/dibattito, dissertando sulla complessità della specie (“Non sono mai riuscito a capire l’uomo”, dice Dostoevskiji morente), collezionando memorabilia dall’antica Russia, in duello tra ordine e sovversione, dove i conflitti di ieri servono a evocare quelli di oggi. Cosa effettivamente fa, allo stesso modo, è apertamente manifesto: un film più anziano che senile, nel senso proprio di “stanchezza”, girato in cattedra, a cui manca sempre qualcosa. E’ l’impressione che si propaga, dai titoli di testa poi a macchia, e bastano 15 minuti per mettere a fuoco questa assenza drammatica: il processo per la costruzione di senso. I demoni di San Pietroburgo semplicemente lo salta. Al film non interessa la nascita delle azioni, il tumulto politico, la doppiezza degli animi; rileva solo l’importo finale, la constatazione di una circostanza certificata, la pietrificazione dello status quo. L’editore/usuraio si rivolge a Dostoevskij: “Non buttare questi soldi sul tavolo da gioco, che ti ha già rovinato”. Un copione di negazioni affermative e congiunzioni esplicative, un continuo disegno di caratteri concavi e figure incavate, uno script che si impone per affermazione e esclamazione (si vede un corteo che inneggia a Bakunin, si legge anarchia), un cannoneggiamento di messaggi quali: Il terrorismo non è la soluzione ma il problema, chi ha lasciato ne soffre ancora l’impatto, verrà la Rivoluzione ma la parola chiave resta Libertà. Quasi futile aggiungere che non spunta l’attrattiva, né un soldo di interesse, se a dirigere la lezione è Fedor Michajlovic Dostoevskij. In potenza sarebbe un peccato perché in certi momenti, quando si prende una pausa dall’esposizione dei confusi teoremi, il film lascia intuire l’occhio figurativo e il senso dello spazio scenico; in atto è lontano anche l’obiettivo del rimpianto, dato che le sequenze in memoria non superano il 3 (la danza fuori dal nosocomio, l’incidente siberiano, l’incubo finale), le derive teatrali suonano ridicole ma non estraniate, la contesa ideologica è una sparata greve che sogna la cupa problematicità de Il resto di niente. Il simbolo di un’aquila e attori canini: Manojlovic è un volto catatonico, Herlitzka e Caprioli povere comparse in gabbia ma fra tutti, particolarmente inaccettabile, Crescentini in veste di Anna Grigorevna Snitkina. Danni imperdonabili della produzione 01.

Nota a margine. Per completezza va sottolineato che un “brivido” il film lo contiene: l’incanto auricolare nella declamazione dell’ultimo passo de Il giocatore. Non è merito del regista, però, ma del sublime capodopera stravolto dello scrittore russo: Questo è un fatto! Ecco che cosa può a volte significare l'ultimo fiorino! E se io allora mi fossi perduto d'animo, se non avessi osato risolvermi?... Domani, domani tutto finirà!