Drammatico, Raiplay, Recensione

HAPPY HOUR

Titolo OriginaleHappī Awā
NazioneGiappone
Anno Produzione2015
Durata317'
Fotografia

TRAMA

Quattro amiche, Jun, Akari, Sakurako e Fumi, alle prese con compagni mediocri e prepotenti, cause di divorzio impossibili, rapporti di coppia gelidi. Donne che si raccontano le loro crisi coniugali.

RECENSIONI

Happy Hour fu il film che nel 2015 cominciò a dare visibilità globale a Ryusuke Hamaguchi. Rivederlo oggi, dopo l’Oscar a Drive My Car, conferma retrospettivamente che la vocazione che rende riconoscibile il cineasta giapponese è quella di una “ri-letterarizzazione” della materia cinematografica – come si vedrà non meno chiaramente nelle opere successive. Vocazione non a caso parallela al dilagare contemporaneo della palesemente (e a volte intelligentemente) neo-letteraria serialità televisiva.
In quest’ottica, non sorprende né che il riferimento principale sia qui Michelangelo Antonioni, né che rispetto a quest’ultimo Hamaguchi percorra una rotta inversa. Happy Hour comincia come Le amiche, con quattro donne di Kobe non lontane dagli “-anta” che pianificano una gita insieme fuori porta. Continua con L’avventura, quando una di loro (Jun) scompare nel nulla dopo il divorzio con uno scienziato che la ama a modo suo (e cioè con una forma di distanza rispettosa ma micidialmente fredda, e dunque percepita come la peggiore delle indifferenze), e prosegue gravitando dalle parti di Identificazione di una donna (la lunga, stupenda confessione intima dello scienziato). Per Antonioni, l’enigma del desiderio femminile è omologo all’enigma dell’immagine, strutturalmente non agganciabile a una significazione definita: dopo la misteriosa scomparsa di Anna, L’avventura va alla deriva, e si sfrangia in mille rivoli, impossibilitato a chiudersi in un senso unitario. Per Hamaguchi vale l’opposto. Jun scompare perché occupa una posizione strutturalmente inabitabile: quella da cui il desiderio femminile guarda al proprio enigma con oggettività, assumendosene in prima persona la responsabilità per conservarsi in quanto enigma, a differenza dell’amica infermiera (la “tosta” Akari) che guarda in faccia all’enigma del desiderio femminile eliminandolo, sciogliendo cioè la sua irresolubilità nella più inequivocabile delle trasparenze. Ma alla scomparsa segue il contrario della deriva, perché la casalinga Sakurako e Fumi, gerente di uno spazio pubblico, anziché perdersi si ritrovano, seguendo ognuna un percorso di autocoscienza che troverà effettivo compimento: pur al prezzo di squassare la propria vita di coppia senza margini di recuperabilità granché agevoli, entrambe si installeranno nello scomodo punto da cui prendere responsabilità del proprio desiderio. Dolorosamente, ma positivamente, i conti vengono fatti tornare. Quanto ad Akari, ci riuscirà solo grazie all’intervento quanto mai tangibile di una mediatrice esterna, laddove Jun, per le altre due, funge da ispirazione solo virtualmente e implicitamente. Insomma: Jun sarebbe la forma fin troppo compiuta dell’appropriazione autocosciente dell’enigma del femminile, e per questo viene risucchiata dalla Legge (perde la causa di divorzio) senza scarti, ed espulsa dalla struttura geometricamente autosufficiente del film (le cui raffinatezze vanno ben oltre quelle accennate poc’anzi) affinché Jun “contagi” con la propria autoconsapevolezza le altre protagoniste, creando piccole valanghe di cui il film si affretta a tracciare con precisione i contorni.

Nessuna di queste micro-valanghe, comunque, si avvicina a scalfire l’equilibrio autosoddisfatto conquistato attraverso la parola. Prendere in mano l’enigma del proprio desiderio vuol dire qui, abbastanza letteralmente, imparare a parlare. Happy Hour inizia con un workshop coordinato da un trainer la cui credibilità andrà scemando via via, e che insegna ai partecipanti a “trovare il proprio centro”, a prendere confidenza con le sensazioni corporee che regolano il proprio equilibrio psicofisico. Tuttavia sarà sempre più la parola, e non il corpo, a conquistare la scena: in misura via via sensibilmente crescente il film si concentra sui dialoghi e sullo sforzo di articolazione di ogni frase, di ogni istante, verso un’espressione quanto più possibile esatta. Naturalmente ci vuole tempo: il che spiega gran parte delle cinque ore e passa di proiezione, indispensabili affinché il tempo rettilineo dell’azione drammatica venga eclissato dietro un tempo più orizzontale, romanzesco, vòlto al tessersi paziente delle relazioni tra i personaggi. Scandita con una a dir poco ossessiva attenzione allo spazio teoricamente inviolabile dell’interlocutore, la parola finisce per violarlo inevitabilmente e sistematicamente, con vibrazioni da registrare sismograficamente attraverso una regia tanto limpidamente composta quanto pronta a lasciare che lo schema accolga appena percettibili variazioni.
Simmetricamente, tanto il film si apre, tanto più diligentemente si chiude: nato lavorando sull’improvvisazione insieme agli attori, Happy Hour dall’inizio alla fine dà comunque l’impressione di essere un’opera quadratissima, senza alcuna sbavatura, anche per via dell’utilizzo di marche registiche leggibili a colpo sicuro: fra le altre, l’occasionale tentazione fotografica di silhouette umane in penombra su sfondo luminoso, le saltuarie associazioni tra i personaggi che il montaggio si concede “a lato” della storia (p.es. suggerendo un’analogia tra Jun e la gravidanza indesiderata causata dal figlio adolescente di Sakurako), l’utilizzo studiatamente ricorsivo di alcune location chiave (il ponte, il porto, la metropolitana, la stazione…).

In questo sorvegliatissimo sistema di sistole e diastole, non poteva mancare un aggancio a un altro dei massimi numi tutelari tardo-moderni: Yasujiro Ozu. In alcuni dei momenti dove il dramma si avvicina a qualche picco, il film ricorre a sguardi in macchina in campo-controcampo a 180°: ciò con cui Ozu ha sistematicamente prosciugato e ridotto a superficie qualunque ipotesi di profondità emotiva a cui i personaggi si affacciano di tanto in tanto. Tolta di mezzo l’interiorità, si spalancano le porte alla supremazia della parola in sé e per sé. E come conferma la lunga scena del reading letterario e del suo seguito formale (il Q&A con l’autrice) e informale (il bicchiere in compagnia degli organizzatori), la parola è il campo neutro su cui maschile e femminile possono diplomaticamente negoziare le differenze delle rispettive maniere di percepire il mondo. Che il femminile possa farlo alla pari, finalmente al di là di dicotomie ancora tardo-moderne (antonioniane) come parola maschile vs. immagine femminile, è una conquista da tenersi stretti; che l’unico modo per farlo sia aggrappandosi al salvagente della letteratura come strenuamente fa Hamaguchi, questo è il dubbio che il talentuoso regista nipponica fugherà, si spera, nei film a venire.