TRAMA
New York, 1962. Tony Vallelonga, bianco e rozzo, chiacchierone e sbruffone, padre e marito, è un buttafuori del Copacabana; Don Shirley, nero, colto e raffinato, di poche parole, pianista notevolissimo, vive da solo in un sontuoso alloggio sopra la Carnegie Hall. Tony perde il lavoro e ne cerca un altro. Si ritroverà, non senza iniziali pregiudizi, a dover fare da autista a Don, con il supporto di un curioso manuale di viaggio, accompagnandolo in un tour nel Sud del Paese, tra gli Stati più ostili alle persone di colore. Non sarà facile per i due, ma sarà indimenticabile…
RECENSIONI
Sono morti nel 2013, Tony "Lip" Vallelonga e Don Shirley, a pochi mesi di distanza, rispettivamente a 82 e 86 anni. Il titolo del film - la prima regia cinematografica di Peter Farrelly senza il fratello Bobby, ma c’è anche la serie Loudermilk - deriva da The Negro Motorist Green Book, una guida per viaggiare negli Stati Uniti pubblicata ogni anno dal 1936 al 1966 e ideata da un postino afroamericano di Harlem, Victor Hugo Green, che indicava tappe, ristoranti, alberghi e locali dove la gente di colore non avrebbe avuto particolari problemi, specialmente nel Sud più razzista. Era, per tutti, il Green Book, lo vendevano in certe stazioni di servizio ma era possibile anche farselo spedire. Nel 1960 il suo autore moriva (la moglie Alma garantì le uscite negli anni seguenti); nel 1961, alla radio, lo scrittore James Baldwin affermava che «essere negro negli Stati Uniti, ed esserne relativamente cosciente, significa essere sempre in collera». L'I have a dream di Martin Luther King nell'agosto '63; il Civil Rights Act del 1964 e, così, la fine delle leggi segregazionistiche "Jim Crow"; JFK e Bob Kennedy, Malcolm X... e, ancora, come scrive lo storico George Fredrickson in Breve storia del razzismo, «non fu prima del 1967 che una sentenza della Corte suprema dichiarò nulle le ultime leggi dello Stato che custodivano il simbolo primario di un regime razzista - il divieto di matrimoni misti».
Di cosa parliamo quando parliamo del Green Book di Farrelly, invece, non è facile saperlo. E di cosa dovremmo o potremmo parlare è ancora più arduo da stabilire. Potremmo forse pensare a Viggo Mortensen (nel film è Tony) che si è scusato per aver pronunciato la parola 'negro' durante un incontro pubblico; potremmo soffermarci sulle scuse del co-sceneggiatore del film Nick Vallelonga, figlio di Tony (specialmente nei confronti di Mahershala Ali, musulmano, che interpreta il personaggio di Don Shirley), per un tweet del 2015 pro Trump e contro l’Islam; potremmo ancora calibrare le idee sul pene burlone di Peter Farrelly ai tempi di Tutti pazzi per Mary, e, sulle scuse, ancora le scuse, che oggi arrivano («Ero un idiota»). Potremmo anche dire che Green Book ha fatto felice la famiglia Vallelonga mentre dal fronte Shirley non le hanno mandate a dire, affermando di aver falsificato non solo la figura di Don, in particolare rispetto ai rapporti con la sua famiglia e con la gente di colore, ma anche di aver inventato un'amicizia mai nata, un’intera storia, dunque, che Nick Vallelonga invece assicura sia durata dal quel '62 fino alla fine, come altre testimonianze (dei figli e della vedova di Bob Kennedy, ad esempio, con lui che nel film "c'è"…) e documenti audio e video dimostrerebbero. A questo punto, potremmo provare anche riflettere sulla notte degli Oscar alle porte e su quali e quante sono le possibilità del film di accaparrarsi uno o più premi, specialmente se pensiamo alla costellazione delle polemiche e degli episodi intorno al film summenzionati (per dovere di cronaca, comunque, ecco almeno le nomination: Miglior film; Migliore attore protagonista [Viggo Mortensen]; Miglior attore non protagonista [Mahershala Ali]; Miglior montaggio, Miglior sceneggiatura originale). Uno dei tanti guai di questi nostri bei tempi, d'altronde, è che il gossip ha sostituito il pensiero, disboscato il contesto, i contesti, con news e social che hanno in gran parte viralizzato - perdonate questo orrore, ma c’è da leggere "atterrato" - il discorso (e, in mezzo a tutto questo, diventa tempo tragicamente smarrito il provare a spiegare ai probiviri del buon senso la risibilità di tesi come: Farrelly, da «bianco e privilegiato (sic)» - e non dimentichiamo il suddetto fallo -, questo film non poteva, non doveva farlo).
Insomma, alla fine, cosa resterà dell’esistenza di Green Book non lo sappiamo, ma per quel che ci interessa Peter Farrelly, per molti qui depotenziato, normalizzato, fa, al contrario, un film a suo modo esemplare, cristallino, molto lieve e molto concreto, un road movie molto americano dove i luoghi, i volti, le persone, e persino - anzi soprattutto - il cibo, il pollo fritto, gli oggetti e i simulacri non solo reinventano con passo serio e incredibilmente faceto un'epoca, ma anche un intero, composito paesaggio mentale, culturale, antropologico, una nazione, le sue vergogne e crepe individuali e collettive.
Un film che può apparire operazione semplice ma in realtà nulla semplifica, rendendo tutto perfettamente essenziale, colmo di senso, di immagine: il punto di vista del personaggio di Viggo Mortensen sul mondo; la sua famiglia e i suoi amici chiassosi, la sensibilità della moglie (Linda Cardellini), i due bicchieri buttati via di nascosto, la raffica di hot dog mangiati per aggiudicarsi dollari utili, le lettere sgrammaticate e pigre poi trasformate in desiderio, la solitudine e le tante implosioni del personaggio di Mahershala Ali, alieno anche a se stesso, l’omosessualità che non ha nome, i silenziosi e osservanti coltivatori neri, il loro lavoro durissimo che si fa quasi corto a sé, parentesi quasi sognata e ritmica, le miserabili qualità dei ricchi bianchi che si dicono amanti dell’arte e invitano un musicista di colore ricoprendolo di lodi per poi proibirgli di cenare al ristorante con loro o invitandolo a servirsi di una latrina in giardino. Non è un film sul razzismo, Green Book, però, è prima di tutto quel che mostra evidentemente di essere: un film su un rozzo bianco e un raffinato nero che diventano amici in un viaggio assurdo eppure reale, esilarante e a tratti doloroso nell'America del 1962; non importa se questa storia sia del tutto vera, se lo sia solo in parte, o non lo sia. Perché è proprio questa sua evidenza mostrativa, e non dimostrativa, a farne un film che in realtà sa contenere molte altre storie, microscopiche, fatte anche solo di un gesto di rivolta, di un battibecco, di una notte in cella, di molte direzioni immaginabili, di un Natale per tornare a casa.
Tutto questo, in un'opera attentissima, quasi maniacale nella forma invisibile, nell'articolazione spaziale del corpo (del personaggio, dell'attore) nell'ambiente. Tra le imputazioni più dolci quella di essere un film «troppo ottimista»; tra le più ingenue quella che lo indica come classico esempio di film dal sentimento facile ma che in realtà non sposta, non "detta" niente: spetterebbe a Farrelly, dunque, l'ardua missione? Eppure la sensazione è che, tra l'America passata di Green Book e quella altrettanto passata, mettiamo, di BlacKkKlansman di Spike Lee, il presente si stia giocando, più tragicamente, più ottusamente, in equilibrio incertissimo su un cestino riempito di fried chicken. Anche per chi, per la prima volta in vita sua, mangerà con le mani.