Drammatico, Recensione, Sala

FRATELLO E SORELLA

TRAMA

Un fratello scrittore e una sorella attrice che non hanno avuto contatti per vent’anni a causa delle parole poco lusinghiere che lui le ha riservato in uno dei suoi best seller sono costretti a rivedersi e stipulare una tregua momentanea dopo che i loro genitori rischiano di morire in un incidente improvviso.

RECENSIONI

Fratello e sorella è il Desplechin che prediligo, quello che si impelaga nei labirinti freudiani che innervano la vita familiare, l’autore senza misura che in nome del dramma non disdegna enfasi o artifici teatrali (I re e la regina, Racconto di Natale, I fantasmi di Ismael - da vedere nella versione più lunga e strabordante presentata a Cannes prima che venisse “rieducata” per la distribuzione - sono, tra gli ultimi, i suoi film che amo di più). Con questo titolo, presentato a Cannes 2022, il francese torna dunque al family drama di Racconto di Natale, ma, al netto della commedia e delle sottotrame, lo concentra sull’enigma dell’inestricabile livore tra parenti (qui fratello e sorella, lì madre e figlio che, come in questo caso, si chiamano Vuillard - la famiglia cinematografica del regista -).
Solito, splendente concentrato di arti e autobiografismo trasfigurato (siamo a Roubaix, where else?) a cui Desplechin ci ha abituato, Fratello e sorella, inscrive lo straziante racconto in primo piano in un mondo narrativo più ampio tutto da intuire che, presupponendo e implicando i precedenti dell’autore, riesce comunque a prescinderne. 

Come sempre al massimo del realismo intimista (la particolare dimensione affettiva derivante dal legame familiare, sano e insano, azioni e reazioni: cura, dedizione, attenzione, rispetto e suoi esatti contrari) fa riscontro un furore letterario che fa deviare il racconto nel surreale. Perché Desplechin, dietro l’intreccio, muove motivi sottilissimi, sotterranei, che deflagrano, improvvisi, senza offrirsi a decodifiche, sottintendendo inconscio - individuale e familiare -, passati non elaborati (di vivi e morti), rapporti personali involuti. Fratello e sorella in questo è esemplare: l’odio feroce tra Alice e Louis ha radici vecchie quanto implicite e tale ineffabilità fa sì che la messa in scena del rapporto tra i due protagonisti viaggi su una dimensione non propriamente realistica, quasi sul filo di una leggenda malefica; l’incompatibilità tra i due fratelli suona come una deviazione fantasy, un’elaborazione mitologica, il frutto di un misterioso sortilegio, una magia perversa, una maledizione da storia stregonesca, con spregio assoluto del naturalismo (lei che ha un’epistassi quando è costretta a parlare del fratello o che sviene dopo averlo visto - cfr. La signora della porta accanto di Truffaut). «Mi ci sono voluti dieci anni per rendermi conto che l'odio aveva preso il sopravvento» dice Alice, quasi a registrare lo stato avanzato di un morbo inoculato con una pozione avvelenata. Potrebbe essere un dialogo di Riverdale che di incantesimi e anatemi è piena. E non turbi il parallelo ché anche quella serie, come il cinema di Desplechin, si muove su presupposti testi e generi cinematografici (qui il western, per esempio), citati esplicitamente: tra i film Magnolia di Paul Thomas Anderson (la scena della farmacia), La sera della prima (la fan di Alice in attesa sotto la pioggia all’uscita dal teatro - all’origine Eva contro Eva -), The Dead di John Huston (le recite sul palco - e quello di I morti di Joyce, è ovviamente, un motivo che attraversa tutto il film -). A Cannes Deplechin ha citato anche Minority Report di Spielberg (probabilmente per la morte del figlio del protagonista, le droghe per elaborarla, la scelta di vivere isolato da tutti). E naturalmente il Woody Allen di Un’altra donna  (i dialoghi ascoltati attraverso la grata di un aspiratore, ma tutto il marasma familiare e i conflitti che mette a nudo il film con Gena Rowlands - l’odio tra fratelli, in primis - si ritrovano in questo: nume tutelare Bergman, ça va sans dire) e Alice (fin dal nome della protagonista) che appartiene, non a caso, al filone magico-surreale del cinema dell’americano (il volo su New York, qui replicato da Louis).

L’odio tra i protagonisti, si diceva. Nell’intervista ai Cahiers Desplechin afferma: «Il perché dell'odio non è mai interessante. L'odio è una perdita di tempo, tutto qui. Possiamo forse fare un po' di genealogia al riguardo, ma non spiegarlo». Non si spiega perché nella famiglia l'odio, come l’amore, segue percorsi strani, banali automatismi, considerazioni meschine. Qui l’inatteso successo di Louis che va a intaccare una sorta di primato familiare detenuto da Alice, attrice affermata e amata dal suo pubblico. L’irritazione di Alice per i trionfi del fratello diventa gelosia che inacidisce in odio (Desplechn: «Non c’è motivo di odiare nessuno oltre te stesso. Alice ne è prigioniera e ha perso il filo di quell’odio»). Alice ha un ego grande, prepotente: un dato, questo, che probabilmente i genitori hanno sempre accettato. E Louis pure deve averlo accettato all’inizio (come avviene nel nucleo, in cui le impostazioni delle relazioni familiari un po’ si definiscono d’autorità, un po’ si sedimentano per abusata consuetudine), fino a quando, diventato un concorrente (la sua affermazione nel mondo letterario), non si è manifestato, agli occhi della sorella, come un nemico. E qui entrano ancora in ballo i genitori. In Fratello e sorella, come in tanto del cinema familiare di Desplechin, non c’è necessità della figura dell’analista: sono le situazioni e gli scontri familiari che fanno venire a galla l’inconscio. In questo caso quando si adombra che la stenosi che porta all’amputazione della gamba della madre sia dovuta al fatto che Louis vi ha dormito appoggiato. E quando l’uomo dice al padre: «Tu morirai, tra mille anni, ma tu morirai. E io non verrò al tuo funerale». Sono due pezzi cruciali del puzzle che sottintendono che, alle radici del conflitto con la sorella, per Louis non c’è l’atteggiamento prevaricatore di Alice, ma l’avallo implicito che a quell’atteggiamento hanno dato i genitori. E che i genitori siano il vero punto dolente della questione lo si comprende dalla reazione di Louis (Desplechin: «Un principe caduto») nella prima scena (le visite a casa dopo la morte del figlio), dalla centralità dell’episodio dell’incidente stradale che li coinvolge (che è quello che riporta a contatto i protagonisti) e dal fatto che la riconciliazione tra i fratelli avverrà immediatamente (e ancora una volta inspiegabilmente) dopo la loro morte, come se, con papà e mamma, scomparissero anche i motivi del dissidio (la maledizione evapora). Desplechin - nel suo modo internamente complesso, ricco, stratificato, eppure esteriormente secco, scarno, essenziale - mette in scena una elementare dinamica familiare, esasperandola. E nel momento in cui quella dinamica negativa inverte il segno e si fa positiva intesa, nuova comprensione, l’autore adombra persino la possibilità di un incesto (il dialogo a letto, lui nudo). È una rima sullo stesso registro: se l’odio è stato dipinto nei toni grotteschi e con le tinte forti di una favola nera, allo stesso modo il ritrovato amore lo si suona su note altissime, paradossalmente sessuali [1] .
Un appunto: trovo straordinari tutti i personaggi che orbitano attorno a questo buco nero dell’odio tra Louis e Alice (Faunia [2], la moglie di Louis è un romanzo a sé, per esempio), a cominciare dal fratello minore Fidèle, una figura schiacciata dagli ego dei due fratelli maggiori, dichiaratamente non protagonista, nel senso che è marginale nel film perché risulta marginale negli equilibri familiari e nella considerazione genitoriale.
Nessun premio a Cannes, destino inevitabile per un cinema colto e brulicante di influssi, impermeabile al compromesso e divisivo per vocazione.

[1] A meno che, come suggerito da Giulio Sangiorgio su Film Tv, non si voglia vedere proprio nell’incesto, vagheggiato o consumato nell’adolescenza, il nodo alla base del conflitto.
La scena nella sinagoga sembra suggerirlo perché i versetti in ebraico che Louis si fa tradurre dicono:
«Nessuno si avvicini ai suoi parenti per scoprire la loro nudità. Io sono il Signore. Non scoprirai mai la nudità di tuo padre o la nudità di tua madre. Non scoprirai mai la nudità di tua sorella o del figlio di tuo padre o di tua madre, nato in casa o fuori casa».
Ma questa può essere anche un’ironica anticipazione di quanto avverrà di lì a poco nella scena della riconciliazione in cui, per l'appunto, Louis mostra alla sorella la sua nudità.

[2] In Desplechin i nomi sono sempre citazioni implicite, Faunia (nome che Desplechin usa spesso, come Ismael, altro ovvio riferimento letterario) è la protagonista di La macchia umana di Philip Roth, Borkman viene da Ibsen eccetera eccetera.