FRAILTY

Titolo OriginaleFrailty
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2001
Genere
  • 66986
Durata98'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Mentre da mesi l’FBI cerca Mano di Dio, un serial killer, un giovane si presenta all’ufficio del capo delle investigazioni affermando di conoscere l’identità del maniaco e raccontando una storia che ha inizio molti anni prima.

RECENSIONI


Dio c'è. Dio esiste e c'è stato per tutto il film. Comincio dalla fine, dal vero colpo di scena di Frialty (la scoperta dell'identità dell'assassino è dato secondario, oltre che prevedibile, e comunque preparatorio alla vera svolta): quello del padre dei due ragazzini non era affatto un delirio, l'ordine di uccisione dei "demoni" era realmente impartito dall'Alto, le vittime dell'ascia (para?)divina erano davvero dei mostri, persone resesi colpevoli di turpi delitti, meritevoli del castigo. Nel cimitero ormai pieno di ragnatele del cinema di serie B, dove aleggia ghignante il fantasma cormaniano, l'attore Bill Paxton (in questo degno seguace di Raimi, che lo diresse nel memorabile Soldi sporchi) esordisce alla regia dissotterrando un po' di solida maniera e riuscendo nella difficile impresa di muoversi sul filo sottile che separa il thrilling dall'horror, azzardando (ma il verbo è sicuramente mal utilizzato visto che con piena evidenza tutto il film si regge sull'assunto che segue) il colpo di coda metafisico che impone riletture a posteriori, tremendamente (in ogni senso, compreso il sesto) in voga oggidì.
Abbiamo un piccolo mondo provinciale e familiare, mesto senza essere disperato, che sembra andare avanti con monotona serenità (due pennellate due a dircelo) e che all'improvviso esplode per farsi orrida versione di sé. Una paranoia religiosa sembra impossessarsi del focolare domestico, il delirio religioso e una follia maniaca che portano sangue e paura sconquassano ogni certezza, distruggono il sonno e la ragione: l'universo di un bambino si è capovolto all'improvviso e quello che sembrava chiaro e rassicurante adesso è oscuro e impenetrabile: è arrivato Dio ma Questi, pur avendo sfondato la porta di casa, rimane invisibile a chiedere il suo tributo di Fede. Fenton è la Ragione di fronte all'apparente fanatismo del Padre, di fronte all'idolatria del FiglioFratello; Fenton che decide di non pregare, che volta le spalle alla lotta del Bene contro il Male (e proprio il confine tra Bene e Male, la relatività dello stesso, è tema centrale su cui la pellicola gioca con arguzia, rovesciandone spesso e volentieri i termini), che ne paga il fio (fatica e vescica sulle mani, una reclusione nel buio della cantina, che è madre di tutti i traumi infantili) ma che non rinuncia: spezza la catena e un domani morirà per questo. Fenton non saprà mai che Dio c'era, che quella notte del 1979 era apparso davvero al genitore: la Mission non era chimera psicotica.


Paxton non ha paura di avvicinare due mondi apparentemente inconciliabili, quello degli assassini seriali e quello dei bambini, facendoli accoppiare mostruosamente - con un Dio attivo a fare da terzo incomodo - rendendo i ragazzini apprendisti del mestiere dell'uccisione rituale. E' stato soprattutto questo a disturbare la signora che si agitava sulla poltroncina dietro di me: "Non si possono fare film così" ha detto al marito all'accensione delle luci. Avrebbe potuto esclamare "Per l'amor di Dio!" e sarebbe stata la chiusa perfetta, il suggello sublime. Un punto a favore del regista, in ogni caso: disturba senza essere gratuitamente provocatore. Sul video intanto i timori si intrecciavano: se Fenton aveva paura del padre e del sangue che continuava a far sgorgare, il padre cominciava ad avere paura della miopia del figlio che non vedeva Dio, che non aveva fede e che non pregava (pregandolo Fenton lo avrebbe visto; la Ragione, invece, grande mistificatrice, lo fregherà), perché alla fine di tutto, come detto, Dio c'era.
Tutto questo (bendidio) Paxton lo mescola senza sbagliare le dosi: nessun effettaccio, nessun eccesso, tutto si giustifica nella complessa costruzione di un film che ripone il suo vigore nei toni forzosamente bassi, quasi telefilmici, nell'ambientazione rurale, nei contrasti e nelle interpretazioni (penalizzate da un doppiaggio sciattissimo). Anche le spirali alle quali consegna alcune delle sue vertigini fondamentali, a cominciare dai flashback nei flashback per finire nella storia narrata con la falsa soggettiva di Fenton, sono perfettamente in linea con la generale asciuttezza del registro. Riflessione su un genere, applicazione rigorosa dello stesso? La critica scialerà in trattati e trattatelli. Un piccolo miracolo è avvenuto: ci siamo assicurati un titolo da mille e una citazione. Domani. Abbiate Fede.

Che Dio ci sia oppure no, in fondo poco importa (Paxton, con sarcastica abilità, riesce a non risolvere l’enigma neppure nell’ultima sequenza, in cui la rivelazione oggettiva della natura sovrannaturale e “benefica” degli omicidi è filtrata, forse, dallo sguardo di uno psicopatico): Frailty è un saggio sulle menzognere contraddizioni della Verità che gioca a rimpiattino con gli uomini.
Se Dio non c’è, il film si riduce al consueto viaggio nella paranoia omicida, perdendo una parte considerevole del proprio fascino. Supponiamo quindi, per mero edonismo, che Dio ci sia.
La situazione di partenza è chiaramente biblica. In un giardino incantato che ignora la Storia (i bambini progettano di rivedere lo stesso film), una potenza sovrumana e sibillina (le visioni partono da elementi concreti, una statuetta o un’auto) manifesta la propria incontestabile volontà: uno dei servitori rifiuta la prestigiosa chiamata e ne paga il fio. Fenton (il nome può essere un riferimento allo Shakespeare de Le Allegri Comari di Windsor) incarna la Cultura, che si avvinghia al pensiero razionale per contrastare gli eccessi della Natura, forza che non riflette ma agisce, ebbra della propria innocente incoscienza (il fratello si chiama, guarda caso, Adam).
Dio non si fa vedere: giudice per nulla imparziale della contesa fra ragione e istinto è il padre dei bambini, che cerca di aprire gli occhi al figlio maggiore tramite torture fisiche e mentali. Uccidendo il padre, Fenton punisce l’amoroso carnefice che l’ha costretto a divenire un “malvagio” degno di essere eliminato dai “giusti”. Fenton non sarebbe stato un “demone”, se il padre non ne avesse provocato e orrendamente esasperato il risentimento. Dio istiga il proprio seguace a corrompere un bambino, suo figlio, per poi condurre un altro fedele a eliminare il fratello, e al tempo stesso culla l’uomo nell’illusione del libero arbitrio: difficilmente il Padre celeste avrebbe potuto essere più satanico di così.
Del resto, come nota Wilde, “può essere che ciò che noi chiamiamo male sia bene, e ciò che chiamiamo bene sia male”: e dunque, perché Dio non potrebbe essere un dio di malvagità? O addirittura il Male stesso: “spesso, per favorirci il cammino verso la nostra stessa perdizione, gli strumenti delle tenebre ci dicono la verità, e ci seducono con innocenti trastulli al fine di tradirci nell’atto di abbandonarci a conseguenze più gravi”. Ancora Shakespeare, come nel titolo (“Frailty, thy name is woman”).
Frailty è un racconto dalla forma destabilizzante e sanguinosamente ironica quanto il suo feroce contenuto. Quello che dovrebbe essere un normale film di serial killer (la rassegna stampa sui titoli di testa) si concentra presto su mortifere pulsioni del tutto “trascendenti” (altri decessi, altra follia); la parte centrale è un flashback menzognero nella persona narrante e forse non solo (tutta la confessione potrebbe non essere che una trappola per cogliere l’ultima vittima dell’odio divino); le immagini si caricano di fatali suggestioni (merito anche delle musiche di Brian Tyler); la paranoia del padre si riversa sugli altri personaggi (vittime comprese) e agguanta senza scampo anche lo spettatore.
In ogni caso, presente o assente Dio, niente può cancellare il vortice dell’inquadratura finale, nella quale s’intuisce che, santa follia o diabolico pervertimento, l’apocalittica battaglia non è ancora conclusa, e forse non avrà mai fine: un altro “giustiziere” è in arrivo