TRAMA
I fratelli Mark e Dave Schultz, sono campioni olimpici di lotta libera. Mark viene contattato dal milionario John E. du Pont che gli propone di unirsi al Team Foxcatcher, che lui stesso ha istituito e allena per i Campionati del Mondo.
RECENSIONI
È nell’affanno del respiro di Steve Carell/John DuPont, nel naso posticcio che l’affatica, il senso ultimo di Foxcatcher. Nella protesi che esaspera la fronte di Mark Ruffallo approssimandolo a Dave Schultz, nelle pose di quel corpo goffo ed eccedente, allenato per essere quello di un altro, morto, trapassato. Nella mandibola spostata in avanti di Channing Tatum, nell’avanzare pesante, risibile e sofferente, del passo e negli occhi inebetiti del suo Mark Schultz. È in tutto questo, nel make-up evidente, nella fallimentare mimesi degli attori. In questi corpi divistici che giocano alla mascherata della realtà, che ambiscono al carnevale e non alla copia di questa storia di cronaca piccola, paradigmatica, radicalmente americana. Negli articoli giornalistici che mettono a confronto storia vera e adattamento cinematografico, com’era e com’è, galleria dei volti d’attore in costume e personaggi reali. Nel realismo che si mette in mostra come retorica e farloccamento, come tentativo d’emulazione fallimentare. Perché è un film su una distanza e sul tentativo tragicamente vano d’annullarla, Foxcatcher. Un film su quel che separa il reale e l’idea di John DuPont, la lotta e il significato di cui è rivestita, lo sport e la rinascita di una nazione, i corpi che si scontrano e l’insistere della retorica americana. Sulla richiesta, impossibile da soddisfare, di elevare i primi termini al livello dei secondi. La storia minuscola e sportiva a destino del paese, l’investimento economico a ricostruzione del sogno americano. È un film su questi squilibri, Foxcatcher. Su questa hybrys. E dunque il suo realismo non può che essere inadeguato e perturbante, in continua ricerca di scarti e scompensi, sempre fuori misura: non cerca la cronaca ma gli spettri di una realtà che aleggia sotto, sopra. Che soffia e che soffoca. Un realismo sformato, in cui il ritmo rallenta, la musica raspa, il découpage s’irrigidisce - campo lungo, campo medio e primo piano, spesso controtempo, spesso alla ricerca di un tempo eccedente, di una durata che non si limiti a raccontare ma finisca per descrivere - in un racconto per immagini che si scosta dall’epica del gesto, annullando il respiro dell’evento e lavorando contro il dramma, per interrogare i corpi e gli ambienti, finendo per rivestire i luoghi di tensioni psichiche, studiando la prossemica come rapporto di potere, lo spazio come teatro di fantasmi. C’è sempre un oltre, nelle inquadrature. Un sogno, un’attesa, un desiderio, uno spettro, una frustrazione. Un divario da colmare.
Quello di Foxcatcher - 3° film su 3 in cui il cinema di Miller si elegge a ritorno critico, mediato e problematico al reale di storie vere divenute testi letterari - non può che essere un realismo dello sforzo, una copia evidentemente non conforme, al limite deforme: il biopic e il film sportivo si fanno dramma imploso e sordo nell’ambiente, tragedia intima trattenuta ed espressa in escrescenze, nell’assurdità dei corpi truccati, nel loro incedere faticoso e disperatamente arlecchinesco, nel loro handicap di reale. È la storia di una falsificazione, di una corruzione, un processo di schifosissima cosmesi. Si pensi agli incontri di lotta: si comincia con corpi che si ritorcono l’uno contro l’altro, abbracciandosi e separandosi con forza, coreografando come in una maschia danza dell’anima le tensioni emotive, i rancori e i sentimenti tra due fratelli. E si finisce con il wrestling, con la farsa, mentre il pubblico urla a comando, in un mantra marcio, posticcio e finale, il fantasma di una nazione: «U-S-A! U-S-A!». Perché il progetto idealistico di John non può che finire nella tragedia del burlesco, non può che chiudersi con l’annichilimento plastificato dello spettacolo. «America! America!»
Il film di Miller racconta il dramma contemporaneo di immagini di sé che sfuggono al controllo. È un film su un mancato riconoscimento, sullo slabbramento insanabile tra l’immagine costruita di sé e l’immagine percepita dal mondo, tra la visione narcisistica che s’assolve e lo sguardo impietoso dell’intorno. C’è un abisso sconsiderato, durante la conferenza su cui s’apre il film, tra Mark e il pubblico di scolari. Ci sono poi, finalmente, immagini di sé che combaciano, che si migliorano e mistificano l’una con l’altra, che si riconoscono e mentono reciprocamente, figlie del rapporto seduttivo e patriarcale che s’instaura tra Mark e John. E c’è, soprattutto, lo sforzo prometeico di John di edificare, per via un colonialismo culturale che passa attraverso lo spreco di capitale e lo scialo di retorica, un’immagine di sé che convinca e conquisti l’America, ovvero la madre (e il titolo del film non può che essere quello, il nome del suo team pagato elemento per elemento, foxcatcher, ovvero una sfida assurda e disperata rivolta direttamente alla figura materna e allo sport da lei praticato, perché è lei - e lo si vede in una scena lancinante del film - il pubblico che interessa realmente a John). Così l’omicidio di Dave è anche una risposta alla sua inadeguata performance d’elogio, alla mancata verosimiglianza del suo intervento nel documentario apologetico, al claudicare della sua convinzione nell’esaltare la figura di John. DuPont non ha conquistato l’America, non ha convinto la madre, gli resta solo il triste, inverosimile, spettacolo di sé, una trasmissione di smargiassa exploitation capitalistica in nome dell’ego. E non può sopportare che questa sia imprecisa, lacunosa. Perché Foxcatcher, è vero, è un film sul rapporto servo/padrone, un altro The Master, l’ennesima occasione per dire, come faccio da tempo, che quella dello schiavo è figura centrale dell’oggi. Ma mi pare, soprattutto, un film sul dire-di-sé, sul convincimento del prossimo, sulla persuasione del pubblico. «Ornitologo, filatelico, filantropo, ornitologo, filatelico, filantropo, ornitologo, filatelico, filantropo». Un film in cui il fulcro del dramma, lo scopo del colonialismo, è un riconoscimento insincero, l’imposizione di un mito meno seducente che sedicente, la conferma mercenaria di aggettivi qualificativi, la ricerca sfiancante di discendenti e accondiscendenti, la dittatura oscena dell’io e il suo fallimento. Perché come Gone Girl e Birdman, come prima di questi il fondamentale Maps to the Stars, Foxcatcher è anche un film sull’ossessione, pienamente contemporanea, per la costruzione e il controllo della propria immagine. È una storia americana/reaganiana, un mito maschile affossato, il paradosso dell’imperialismo culturale. Un tragico Edipo da società dello spettacolo, la diagnosi terminale di un sogno. Un’opera sulla fragilità subdola del potere, su uno slancio immaginativo che non può ridursi a baraccone mercificato, uno scacco al narcisismo regressivo di ieri e di oggi. Ma è anche un film - pensateci - sulla vostra pagina facebook.
Una storia vera, immancabilmente elevata (o elevabile) a più ampia parabola degli ultimi decenni di America. 1987. Due fratelli, campioni olimpici di lotta, vengono contattati dal ricchissimo discendente della dinastia dei DuPont per mettere in piedi un team imbattibile. Il complessato e solitario Mark abbocca subito (fondamentalmente perché l'ultranazionalista demagogo DuPont è complessato come e più di lui); Dave invece nicchia: è una “persona normale”, con una famiglia bella e unita intorno. Dopo un paio d'ore di livido dramma (sì: decisamente più dramma che tragedia) in cui si addensano le turbe psichiche dei personaggi, la situazione degenera e il temporale prevedibilmente scoppia.
Più che di districare la matassa drammatica, Miller si preoccupa di imbastire un'atmosfera torbida e vagamente cupa (anche attraverso la direzione degli attori – peraltro di tutto rispetto). Si preoccupa, ad esempio, di mostrare Mark per cinque secondi in aereo con la faccia angustiata, giusto per ribadire quale sia il tono che si è scelto di privilegiare. Il risultato è che il sottotesto politico non viene fuori con sufficiente lucidità. È piuttosto evidente che questa storiaccia di cinque lustri fa ha molto da dire sull'odierna “minaccia populista”, sul circolo vizioso che stringe in un medesimo corpo a corpo le onnipotenti lobby a stelle e strisce e il sostrato popolare di cui a vario titolo non possono fare a meno. Un circolo vizioso in cui amore e odio, fascinazione e ripulsa, non riescono a staccarsi.
Questo abbraccio vanamente agonistico, Miller si limita solo a constatarlo con costernazione. Ma non si spinge oltre. Rimane un po' prigioniero di un soggetto troppo fascinosamente complesso. Capisce bene che non conviene demonizzare DuPont (non è il sulfureo separatore di Caino e Abele: i due fratelli sono lontani già all'inizio), pena la fascinazione di ritorno. Quest'ultima, però, è lontana dallo svanire, perché i tentativi di ridicolizzarlo sono troppo timidi, e troppo legati a un'ansia di psicologizzare che più in generale, purtroppo, appesantisce un po' il film (vedi la scena della madre in carrozzina che fa visita agli allenamenti, e davanti a cui DuPont si sente in dovere di fingere di essere il capo). Non riesce, inoltre, a resistere alla (indiretta) glorificazione della “gente perbene”, la cui integrità rimane indiscussa: rimane insomma implicitamente vittima del populismo che tenta di decostruire. E perché inizia sposando il punto di vista di Mark ma perdendolo poi via via lungo la strada?
Intendiamoci: Miller fa un lavoro robusto e accattivante, grazie al quale le redini di questo dramma gli rimangono sostanzialmente in mano. Peccato, però, che si tenga al di qua delle ambizioni implicite in un progetto del genere.