Recensione, Thriller

FEMME FATALE

Titolo OriginaleFemme Fatale
NazioneFrancia/U.S.A.
Anno Produzione2002
Genere
Durata112'
Sceneggiatura
Montaggio

TRAMA

La Femme Fatale è Laura Ash, un’affascinante ladra che, dopo un furto di gioielli durante il Festival di Cannes, cambia vita e identità. Ma il passato torna…

RECENSIONI

De Palma e basta

De Palma è probabilmente annoiato a tal punto che ormai con la macchina-cinema ci vuole solo giocare e non accetta pressioni di alcun tipo quando il giocattolo gli appartiene per intero e non ha da rispondere che a se stesso: Femme Fatale, low budget con sostanziale partecipazione transalpina - annunciato da un geniale trailer (nelle sale italiane ne circolano due versioni) che riassume tutto il film, titoli di coda compresi, in un avanti veloce da infarto - è il solito ingegnosissimo spasso per immagini in cui il regista non teme nulla, sfrenato senza preoccupazioni narrative, e in cui si può troncare lo sviluppo tramico a tre quarti dell'opera e ricominciare daccapo, coitus interruptus con lo spettatore che cerca di individuare i livelli rappresentativi e vuol afferrare le fila della vicenda. Niente da fare, il gioco lo conduce BDP e lo conduce dove gli pare e piace (da nessuna parte?).
Femme Fatale è rigorosissimo catalogo depalmiano (ipotesi affascinante quella di un film point of no return e post-De Palma in cui l'autore aizza la teoria e si autocita prima ancora di citare), è cinema che svela se stesso e si mostra nudo, privo anche dei suoi paramenti mondani, intellettuali o pseudotali (la splendida sequenza nel Palais durante il Festival di Cannes, l'immagine dello schermo con il logo della rassegna, vertigine all'ennesimo grado), che non si preoccupa di rendersi interessante (è interessante in sé: per questo la scena cannense può durare anche venti minuti, perché è un quadro brillante dal quale non vogliamo distogliere lo sguardo, che ci piace per ciò che è e per come mostra le cose e non per le cose che mostra, labirinto visivo rivisitabile all'infinito).

Il film prende certe strade per abbandonarle, i personaggi sembrano essere, mutano carattere e ruolo, una Femme che visse n volte, nulla è certo e nulla deve esserlo ché al centro della scena ci deve essere un'unica certezza: BDP, deus ex machina (da presa), che funamboleggia e crea Cinema Gratuito da dare in pasto all'Occhio. De Palma l'Esibizionista in FF parla di sé, dunque, e parla d'altro, manipola i classici (sui titoli di testa: La fiamma del peccato e la dark lady Stanwick in video, il suo riflesso - la femme fatale Romijn-Stamos - sul vetro dello schermo) come fa Sakamoto con la musica (il Bolero di Ravel revisited che accompagna tutta la lunga sequenza del furto), non teme la svolta onirica con i suoi risvolti metafisici (è dunque Femme Fatale il Mulholland Drive del regista?) e la risolve a modo suo, mescola destino e premonizioni, possibilità di vita e di morte che sono distinte ipotesi narrative (una Brian ce la mostra e la butta nel cestino all'improvviso); tra le consuete ossessioni scopiche e i travestimenti hitchcockiani, l'autore frammenta ogni evento e raccoglie i pezzi ricomponendoli in un finale che è immagine - puzzle ricostruito nel quale converge ciò che è stato: eccolo il cinema "volgare" ed "esteriore" di un cineasta che pone tutto davanti agli occhi, che non nasconde nulla, in cui niente è da leggere tra le righe, tutto è spudorato e finto-senza-infingimenti.
Sarà snobbato questo Femme Fatale? E' probabile, a De Palma succede spesso (si pensi al capolavoro Raising Cain), soprattutto se, come stavolta, nella sua spirale stilizzata il Nostro non mente nemmeno verosimiglianza, (in)credibile essendo solo il suo grandissimo Cinema ("manierato" è un termine che si sprecherà).
Si dirà che ci si trova di fronte a un esercizio infecondo e arbitrario? Di sicuro: quasi tutti hanno bisogno che un film dica qualcosa, anche semplicemente che la vita può essere bella (o brutta), che l'amore può rendere felici (o infelici), che il cattivo può essere punito (o farla franca). Peggio per loro: quando ho a disposizione una dose di BDP puro io non sento il bisogno di nient'altro.

Un film di Brian De Palma e' sempre un'esperienza cinematografica tra la tecnica piu' sofisticata e la cura per la messa in scena. Questa volta, pero', il grande creatore di atmosfere in cui perdersi abbandonando la razionalita', resta imbrigliato in un copione sconclusionato (di cui lui stesso e' autore) che ribalta piu' volte le carte in gioco senza suscitare troppa fascinazione. Anche la scelta degli interpreti non aiuta: non basta agghindare una giraffona (bella, per carita'!) con occhialone scuro e dettagli in pelle per farne una dark lady e pure Banderas, nella trita versione truzzo-latina, ha ormai esaurito le sue cartucce di macho da esportazione. Il piu' in parte finisce con l'essere il sempre piatto Peter Coyote.
Prevale l'intenzione sul risultato, il virtuosismo sulla sostanza, l'artifizio sul mistero. Il De Palma's touch si riconosce nell'utilizzo dello split-screen, nei rallenty prolungati, nelle lunghe sequenze prive di dialogo, nel gusto per la composizione delle immagini e, in generale, nella pressocche' perfetta cura formale, ma sembra piu' il ripetersi di un cliche' che l'espressione di uno stile personale. Anche la musica di Sakamoto, con un ossessivo semi Bolero ad accompagnare gran parte degli eventi, assume sfumature quasi ipnotiche che diventano un di piu' non sempre comunicativo e talvolta ridondante.
Probabilmente un approccio razionale non e' il modo migliore per gustarsi il raffinato e cinefilo viaggio di De Palma, ma il regista non riesce a creare quell'empatia onirica che il fluire delle immagini dovrebbe suggerire e si perde in un freddo gioco di citazioni e scherzi del destino. Forse e' proprio la gratuita' il maggior difetto del film, un succedersi di belle sequenze il cui ribaltamento pare piu' un pretesto formale che una necessita' narrativa. Il ricordo di Barbara Stanwyck, con cui si apre il film, stimola paragoni imbarazzanti: il suggerito, le frasi allusive e soprattutto la crudelta', l'avidita' e il carisma di una delle dark-lady piu' famose del cinema, perdono, nella versione aggiornata ai tempi, gran parte della loro efficacia. Anche se lo strip-tease della bella Rebecca Romijn-Stamos resta uno dei momenti piu' caldi e coinvolgenti del film.

Alternate alle "Mission to Hollywood", le opere più personali di Brian De Palma sono all'insegna di doppi, voyeurismo, donne che vissero due volte, seduzione-sesso-violenza, percorsi di redenzione, macchinose drammaturgie e malate geometrie. Gira Mission: Impossible al Palais di Cannes, spara il Bolero di Ravel a massimo volume, usa gli infrarossi in soggettiva, lo split-screen, i puzzle fotografici, i grandangoli, la citazione cinefila (La Fiamma del Peccato) e l'autocitazione incensatoria. Rebecca Romijn-Stamos è Grace Kelly (quella di Hitchcock), Barbara Stanwyck ("Sono guasta dentro"), una lesbica appassionata, Kim Novak che sprofonda nella vertigine (due cadute nel vuoto per isolare il buco temporale), Michael Caine Vestito per Uccidere ma non per angosciare, la gemella de Le Due Sorelle, una viziosa ballerina di lap-dance che deride i maschi in lotta (in ombra). Antonio Banderas è il fotografo di Blow Up sovrimpresso al fonico di Blow Out, un carattere-fantoccio, raggirato dalla donna fatale e da un regista che non ha più le idee chiare sulla complessa tematica dello svelamento della realtà attraverso la sua riproduzione tecnica. Il déjà-vu si ritorce su se stesso, perde senso e si compiace dell'esercizio formale con flashback di un rewind. La seconda macchina da presa dello split-screen offre un altro punto di vista, ma un colpo di scena pedestre (il sogno premonitore) le tira un pugno nell'occhio. De Palma, orbo, frana sulla commedia sentimentale, s'aggrappa alle "porte scorrevoli" del destino (Sliding Doors), si contraddice in termini (dalla compiaciuta perversione al buonismo forzato) e ostenta il filo d'Arianna che l'ha gettato nelle fauci del Minotauro: l'orologio segna sempre le 3:30, la televisione disquisisce sul futuro, la macchina da presa è ossessionata dal manifesto "Déjà-vu 2008" e dall'acqua (la chiave è nella vasca da bagno). Da Firenze a Parigi, aggiunge i sottotitoli (vedi la scena dell'incidente) alla sua poetica, vittima di un Complesso di Colpa.

Da un fondo impenetrabilmente nero emergono le larve di Barbara Stanwych e Fred MacMurray (amanti complici, lui dubbioso, lei “marcia dentro”, ai danni di un marito ricco). La macchina da presa indietreggia impercettibilmente: alle ombre del passato si sovrappone quella del presente, il riflesso del volto di una donna sdraiata, le spalle all’osservatore, la stessa posa della Venere allo specchio di Velázquez. L’apparecchio televisivo, come la lastra opaca nel quadro, anticipa nebulosamente il destino incerto che attende la donna del ritratto (alla finestra sul Palais) oltre la tenda la cui repentina rimozione segnerà la fine del prologo (e dei titoli di testa) e l’incipit del dramma. La sontuosa microsequenza è il perfetto compendio di un film che sembra iniziare in sordina (come il Bolero riletto dalla regale partitura di Sakamoto) e in realtà deflagra, suscitando un incendio visivo che non si esaurirà prima dell’ultima dissolvenza.
Le immagini, vertiginosamente stratificate e sempre mutevoli, (di)mostrano il potere di un’illusione che non si offre all’occhio ma lo afferra tenace nelle grinfie scintillanti (come i gioielli della Modella) di un’opera letteralmente barocca, rappresentazione e metafora meravigliosa dei misteri vitali. Stereotipi, citazioni, echi interni formano un tessuto impalpabile e soffocante come un incubo; la frantumazione dei piani narrativi è condotta alle estreme conseguenze (la mise en abîme è la vincitrice del Festival di Cannes visto dal regista), eventi e persone restano oscuri, l’unica cosa chiara è che si assiste al compimento di un piano “criminale” di raffinata complessità, un prodigio di tempismo sensoriale (sensuale) in cui una semplicissima sequenza di figure ricorrenti (la donna, il gioiello, l’occhio, il fluido) è sufficiente a risolvere il piano figurativo. Gli atti le frasi le prove d’attore non sempre in tono? La macchina da presa s-travolge qualsiasi falla in una magmatica delizia: la femme fatale ha trionfato ancora.