TRAMA
Nell’America patinata degli anni Cinquanta, Mrs Fairytale vive una vita apparentemente perfetta. La sua casa, il suo giardino, la sua esistenza sono predisposte come carta pentagrammata. Casalinga e consorte impeccabile, subisce la violenza del marito e si consola con un’amica fedele e altrettanto (in)felice. Ma Mrs Fairytale è molto più di questo e sotto la gonna cova un segreto.
RECENSIONI
«E mi trucco perché la vita mia
non mi riconosca e vada via»
(La favola mia, Renato Zero)
Ogni giorno racconto la favola mia
Favola (a mio avviso il miglior spettacolo di Filippo Timi) è tradotto in un film che pur conservando lo scheletro dell’opera teatrale, se ne allontana volutamente, come già accaduto per Amleto², che portava sullo schermo, direttamente dalla scena, il titolo più rappresentativo del Timi mattatore, il “beniano” Amleto 2 - Il popolo non ha pane? Diamogli le brioche, ma in 3D, quasi a proporre uno scarto che contraddicesse la pedissequa cronaca filmata della rappresentazione e ponesse lo spettatore (anche quello che l’aveva vista in scena) in una posizione differente e inedita. Entrambi i progetti, insomma, dimostrano l’intento di non limitarsi a una semplice traduzione visiva della pièce di partenza.
Favola, lo spettacolo, metteva insieme una serie di topoi del cinema americano degli anni 50 (e un excursus tra i generi: dal melodramma sirkiano alla fantascienza, dal noir alla commedia), ponendo l’accento soprattutto sulle modalità di rappresentazione del nucleo familiare e della figura femminile, giocando con le limitazioni esplicite e le censure tacite del Codice Hayes, decodificandole e ribaltandole in gag, giocando con gli stereotipi («Non credevo che anche gli uomini potessero suicidarsi») in una sorta di deriva demenziale dell’operazione metadiscorsiva di Lontano dal Paradiso di Todd Haynes (ma non è estraneo al film il percorso di straniamento dal testo teatrale e di venerazione cinefila di un 8 donne di Ozon). Si pensi all’esilarante sfida a nominare l’organo sessuale maschile o all’enfasi che precede il proferire la parola “omosessuale”, che giocano proprio con i sottintesi («Deve aggiustarmi la caldaia») e le omissioni del cinema dell’epoca. Mettendo in scena un mondo che si presenta all’esterno smodatamente felice e ordinato (come quello di Suburbicon di George Clooney, per rifarci a un esempio recentissimo), la commedia ne svelava l’ipocrisia mostrando come, dietro la facciata, si celassero segreti orribili e verità inconfessabili. Timi esasperava il registro e perveniva a picchi di comicità irresistibile riportando il dramma al piano nostrano, esasperando il birignao tipico del doppiaggio italiano dell’epoca (i toni, le cadenze, la pronuncia sonora della “z”, ad esempio). La scrittura, senza alcuna preoccupazione di garantire linearità o logicità rigorosa (persino la scenografia è incoerente: se l’ingresso dà su un sobborgo, il finestrone mostra il cuore di una metropoli), diventava un collage di citazioni, manierismi, una sequela di formule riconoscibili e di tipologie attoriali (Lana Turner, Kim Novak, Doris Day, Grace Kelly, Joan Crawford), un pastiche nel quale Timi e Lucia Mascino impazzavano da par loro.
Dietro questa maschera c'è un uomo e tu lo sai
Ed è proprio a questo livello che il film si distanzia dalla pièce: sul palco Favola era un testo con il quale Timi (e il resto del cast, di rimando) giocava fino all’estenuazione, ripetendo le battute all’infinito («Bevi, bevi, bevi» che è un citare il bere continuo dei personaggi dei film americani dell’epoca d’oro), autoriferendosele, lanciando la palla al pubblico col quale il protagonista, pronto a uscire dai panni del personaggio, instaurava una dialettica continua, dando quasi l’impressione di avere a che fare con un’opera aperta, un happening di durata mutevole a seconda degli umori del protagonista e della sala. Il film ovviamente si concentra sull’operazione e, aderendo al testo senza mai deviarvi, risulta molto più inquadrato e decisamente più inquietante, finendo, la nota nostalgica, per accentuarne il retrogusto depressivo (ogni fiaba è nera, in fondo). Favola, poi, rimarca, fino a esplicitarlo didascalicamente, il tema dell’identità (non si sceglie chi essere e chi amare), prevedendo un secondo livello che rivela il primo (quello che stiamo guardando), come la “favola” che è: la favola che il protagonista si racconta, dunque un’allucinazione, un delirio nel quale, nei panni di una sintesi diva-personaggio (Mrs. Fairytale), ci si culla per sfuggire alla realtà (un sogno dorato e un incubo noir ambientato in un’America idealizzata, irreale, artificiale, figlia di un immaginario cinematografico). Se sul palco questo era un motivo alluso, il film, squarcia il velo e lo mostra (la parte finale su Stanislao Favola), disinnescando quella patina di astrazione che era parte del fascino della pièce.
Il risultato è una chicca pop molto inconsueta dalle nostre parti - e dunque coraggiosa -, stante il lavoro peculiare sull’allestimento scenico, sulla confezione visiva (la fotografia è di Renato Berta), forse troppo scoperta nelle sue linee guida e più riflessiva e drammatica del testo d’origine, con soluzioni di linguaggio e registiche plateali, quasi a voler sottolineare a ogni costo la nuova “identità” (appunto) dell’opera, il suo essersi fatta cinema e il suo rivendicarlo.