Fantascienza, Recensione

FAHRENHEIT 451

Titolo OriginaleFahrenheit 451
NazioneGran Bretagna
Anno Produzione1966
Durata112'
Tratto dadal romanzo di Ray Bradbury
Fotografia

TRAMA

Futuro, epoca imprecisata. I libri sono proibiti: rinvenirli e bruciarli è compito dei pompieri. Uno di costoro, Montag, viene avvicinato da Clarissa, una giovane insegnante dall’aria bizzarra…

RECENSIONI

Che cosa è "Fahrenheit 451", il rompicapo con il quale François Truffaut si divertì a spiazzare in maniera equanime ammiratori e detrattori della sua opera, mettendo in difficoltà tanto gli appassionati del cinema "d'autore" (inteso alla luce dei Cahiers) quanto gli amanti dei film di genere (qui, la fantascienza)? Difficile dirlo: proviamo a vedere che cosa non è. Non è un tradizionale film di science fiction, perché, pur parlando del futuro, non lo mette in scena secondo gli stravisti stereotipi del futuribile, e non prova neppure a inventarne di nuovi. Il domani di Truffaut e dello scenografo Syd Cain è quasi identico all'oggi di tutti noi, anzi, per alcuni aspetti è più simile alla settimana scorsa: accanto a mobili funzionali ad anonimi quasi "alla Ikea" troviamo anticaglie da bazar, come il telefono e, ancora più notevole, l'autopompa dei pompieri, vero pezzo da museo. Anche solo da questi semplici elementi emerge con chiarezza l'intento principale del regista, vale a dire una riflessione su ciò che rischiamo di divenire. Nel mondo di "Fahrenheit 451", fatto di pietrificazione e muffa "museale", il potere è detenuto da una classe dirigente che è riuscita a colonizzare l'immaginazione dei cittadini, trasformati prima in sudditi, poi in consumatori: di pillole, di programmi televisivi, di status symbol (il secondo schermo televisivo tanto desiderato da Linda). Questo risultato è stato possibile attraverso l'eliminazione dei libri, e più in generale della parola scritta, che proprio in nome della sua resistenza al tempo si sottrae ad un superficiale bisogno di "informazione" e si propone come germe di riflessione personale: tolto di mezzo (anche dai fumetti) l'alfabeto, gli individui sono "tutti uguali", secondo uno dei superiori del protagonista. Tutti uguali: certo, uguali al modello "regolare" proposto dalla televisione. Ma come sostenere che questa piatta uniformità favorisca la socialità delle persone? Sorpreso dalla moglie a leggere i libri sottratti al rogo, Montag le urla in faccia tutta la propria solitudine: "dietro ognuno di quei libri c'è una persona!"; come a dire che, nella vita di tutti i giorni, non ci sono (più) persone vere, autentiche.
L'uniforme dei pompieri elimina ogni possibile differenza, così come i vestiti dei civili, le loro case e quello che contengono: il conformismo imposto dall'alto, anche con la forza, ha come risultato la riduzione degli uomini a numeri (le tabelline ripetute ossessivamente nella scuola), controfigure di se stessi (la "cattura" di Montag), bersagli di un paternalismo ipocrita che li considera del tutto intercambiabili (la "partecipazione" di Linda alla commedia allestita dalla Grande Famiglia televisiva, che dà i brividi ora più che al tempo delle prime proiezioni, per comprensibili motivi). I libri sono allo stesso tempo riscoperta dell'umanità (in senso rinascimentale) e liberazione dal peso di una società fittizia, in vista dell'ingresso in una comunità basata non sull'uguaglianza dell'uomo a una dimensione, ma sui differenti punti di vista di uomini differenti, fissati in una forma cristallina e destinati a essere trasmessi alle generazioni future. Anche questo è un museo, ma abitato dalla bellezza, che vivifica la creatività dei singoli e li aiuta nel cammino della vita. È grazie ai libri che il protagonista scopre che esistono altri mondi possibili, che quello che diamo per scontato (la pertica della caserma) può non esserlo, che la vita non è marmorizzata in un eterno presente. Quello di Montag è un percorso che molti definirebbero "alla rovescia", poiché passa dalle certezze (e dall'insegnamento delle tecniche del mestiere ai giovani pompieri) al dubbio, alla pluralità di punti di vista (e all'apprendimento mnemonico di un libro): ma questo è l'itinerario di tutti i personaggi di Truffaut, da Antoine Doinel che, schiacciato da genitori e maestri autoritari, si ritrova di fronte alla terribile e bellissima vastità dell'ignoto, a Ferrand, il regista di "Effetto notte", il quale afferma, a proposito dalla lavorazione di un film, che "dapprima si spera di fare un buon viaggio, e poi molto presto ci si chiede se si giungerà mai a destinazione". "Fahrenheit 451" è, in realtà, un vero film di Truffaut, che parla di quello che gli sta a cuore fin dagli anni dell'esordio: la ribellione, l'amore, il tradimento, la morte. Ma sembra un film di Truffaut fatto dirigere a qualcun altro. Il regista appare a disagio, come se fosse il primo a non credere alla consistenza inesistente dei personaggi e alla prevedibilità del loro comportamento. Alcune sequenze (i viaggi in metropolitana, in cui tutti i passeggeri, tranne Clarissa, sono come compressi in se stessi, le letture notturne di Montag, la morte della donna dei libri) testimoniano la nota capacità di catturare la bellezza, la poesia del vivere, anche in gesti quotidiani e/o atroci, e la recitazione di Julie Christie, nel doppio ruolo di Clarissa e di Linda Montag, è molto commovente, ma i dialoghi (del regista e di J. - L. Richard) sono fastidiosamente dimostrativi, le scene troppo spesso si reggono sul dialogo e non sui movimenti di macchina, la musica di Bernard Herrmann sembra presa di peso da un film completamente diverso. Bella la fotografia dai toni lividi ideata da Nicolas Roeg, devastante l'inespressività di Oskar Werner, primadonna ai ferri corti con il regista fin dall'inizio della lavorazione. In sintesi: la storia c'è, ma la trasposizione, seria e corretta, stenta a farsi cinema.