Recensione, Thriller

LA REGOLA DEL SILENZIO

Titolo OriginaleThe Company You Keep
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2012
Genere
Durata125'
Sceneggiatura
Tratto dadall’omonimo romanzo di Neil Gordon
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Un ex attivista cerca in tutti i modi di evitare un giornalista che ha scoperto la sua identità segreta.

RECENSIONI

Nostalgia canaglia

Robert Redford è un’istituzione cinematografica, punto di riferimento per il cinema indipendente grazie al Sundance Film Festival e fervente sostenitore di un cinema dove il divismo incontra l’impegno politico liberal. The Company You Keep mantiene le aspettative cercando, e in parte riuscendo, a fondere l’intrattenimento con temi più profondi. Il film, di cui Redford è oltre che regista anche protagonista, vede contrapporre due caratteri forti: un ex-terrorista latitante da trent’anni che si è rifatto una vita formando una famiglia, e un giovane giornalista alla ricerca dello scoop del secolo. Nel corso della narrazione gli ideali del primo contamineranno le certezze del secondo, fino a un ipotetico passaggio di testimone che ridimensionerà le ambizioni giovanili in una consapevolezza più matura. Robert Redford costruisce con professionalità un’opera dall’impianto classico, e dall’incedere moderatamente incalzante, in cui un uomo solo contro tutti deve dimostrare la propria innocenza: l’ennesimo fuggitivo virtuoso all’inseguimento di verità nascoste.

Si segue la caccia all’uomo con partecipazione nonostante le molte ingenuità della sceneggiatura, piuttosto lineare nell’affiancare snodi, confronti rivelatori e colpi di scena. E dietro ai complotti i valori perpetuati sono gli stessi di sempre. Gli ex terroristi sono diventati ricchi anziani che non si pentono del passato e hanno un forte senso dell’onore e della lealtà. Non esitano quindi a sacrificarsi in nome dei vecchi ideali e dell’amore. Ma la saggezza contagia anche il cinismo dei giornalisti, vulnerabili alla solidità di obiettivi più alti. La famiglia, però, viene prima di tutto e il suo ruolo centrale e salvifico è sottolineato in più occasioni. Tutto funzionale al racconto, ma anche piuttosto retorico e improbabile.

Ovviamente il film è anche un monumento allo stesso Redford, ormai settantaseienne eppure con figlia dodicenne, ancora in grado di correre, scavalcare recinti e seminare pattuglie di poliziotti. Essendo eroe senza macchia e senza paura, poi, il nostro è terrorista sì, perché per le cause giuste bisogna lottare costi quel che costi, facendo scelte anche dolorose, ma quando la situazione diventa troppo violenta meglio darsi alla macchia e uscire silenziosamente di scena. Altisonante il cast. Più che per Shia LaBeouf, comunque in parte, l’occasione è ghiotta per rivedere numerose vecchie guardie in grado, con poche sequenze, di imporre il loro immutato carisma, da Susan Sarandon a Julie Christie passando per Nick Nolte e Richard Jenkins. Il Weather Undergroung, a cui il personaggio di Redford apparteneva nella finzione, è un’organizzazione di sinistra radicale realmente esistita che negli anni ’70 criticò con azioni di protesta la politica estera degli Stati Uniti. Su dichiarazioni dello stesso Redford, “È passato tanto tempo da quei fatti che ormai sono entrati nella storia americana e adesso si possono raccontare”.

Del trittico in cui Robert Redford si confronta con la Storia Americana e dà lezioni di liberalismo, dopo Leoni per Agnelli e The Conspirator, è l’atto migliore: merito della sceneggiatura in punta di penna di Lem Dobbs, che ben si barcamena nell’adattare il best seller di Neil Gordon, con dialoghi eccellenti nell’esprimere la complessità di sistemi di valori contrastanti messi in campo. Evidentemente, gli argomenti spinosi fanno bene al cinema di Redford (vedi Quiz Show), spesso imbrigliato in schematismi didascalici. Il fulcro, infatti, è l’idealismo contro le istituzioni della controcultura giovanile negli anni sessanta e settanta, spesso sfociato in violenza: non è facile evitare il cerchiobottismo (il protagonista di Redford non poteva essere “anche” colpevole?), portare avanti le ragioni di allora, gli uomini che le declamavano di oggi, l’immagine di tutto ciò ereditata nella coscienza collettiva delle nuove generazioni (fissazione delle ultime opere di Redford) e le ragioni della Legge, della Giustizia incarnata dalle istituzioni. Redford ricompone il thriller di caccia all’uomo e di giornalismo d’assalto delle due pellicole che l’hanno reso un’icona negli anni settanta (I Tre Giorni del Condor e Tutti gli Uomini del Presidente), concedendosi tutto il tempo per fare dialettica, sfruttando l’on-the-road, in parallelo, del giovane giornalista che cerca la verità e dell’anziano attivista che cerca la libertà. Incontrano la bravura di interpreti che indossano, talento del regista, personaggi a tutto tondo con una manciata di battute servite a puntino. Il titolo originale, più di quello italiano, sintetizza le due anime di un’opera che mette in campo le ragioni di stato (“Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”) e quelle individuali (“Gli amici non si tradiscono”) e in cui, soprattutto, si respira, in forma nostalgica, la brezza di un idealismo perduto, con il personaggio di Redford che guarda con affetto i suoi indomiti leoni acciaccati, reduci dal grande Sogno, che hanno sbagliato, ma avevano ragione. Solo due difetti: la scorciatoia per ottenere le simpatie del pubblico, dipingendo come uno stronzo l’agente speciale dell’Fbi e le sin troppo fortunose indagini del giornalista, che trova indizi fondamentali e segreti impossibili basandosi su pochi dettagli e qualche intuizione.