Documentario, Evento

FAHRENHEIT 11/9

Titolo OriginaleFahrenheit 11/9
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2018
Durata120'
Sceneggiatura

TRAMA

Dopo Fahrenheit 9/11, Michael Moore sposta la sua attenzione su un’altra data significativa, il 9 novembre 2016, giorno in cui Donald Trump è stato eletto quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti.

RECENSIONI

FICTION CONTRO FICTION

«Water, water, everywhere, / Nor any drop to drink». Acqua ovunque, ma neanche una goccia da bere: i versi di Coleridge si addicono alla popolazione di Flint, Michigan, a maggioranza nera, nella crisi scoppiata nel 2014 (12 morti per legionella, fino a 12.000 minori esposti al piombo). Poveri che bevono acqua avvelenata, la General Motors che testa componenti con acqua pulita: la situazione di Flint diventa metonimia dell’America perché segnala una differenza di classe, una contraddizione feroce eppure semplice, logica, sotto gli occhi. Il governatore repubblicano Snyder che si dice irresponsabile. Obama che finge di bere da un bicchiere. Questione di immagine. Perché Fahrenheit 11/9 è il film di Michael Moore che, da anni, più pone il problema dell’immagine. Ci chiedono di guardare. Fanno vedere. Si autorappresentano. Fin dall’inizio: Hillary Clinton viene definita “il prossimo presidente”, si chiede di osservare e quindi di credere. Trump si rivolge a un operatore e ordina: «Gira la telecamera e inquadra le persone». Uguale e contrario. Sono due racconti speculari, sistemi allo specchio, quelli che Moore mostra in un nuovo fahrenheit, diverso ma come prima, un’altra misurazione che porta agli estremi, all’ebollizione o alla fusione: si chiamino democratici o repubblicani non importa, sono entrambe scritture di sé che dicono dove volgere lo sguardo. Impianti tanto radicati e fittizi che si possono combattere solo con un’altra finzione: il documentario di Moore. Eccessivo, urlato, fazioso. Oppure ironico, indignato, tragico. Perfino apocalittico. E infine tenuemente umanista. Fiction contro fiction: colpo su colpo.

Dopo il fallimentare Where to invade next il regista torna a ciò che conosce meglio, il territorio americano, con un film che si offre chiaramente come summa del suo cinema: c’è la grande industria che licenzia e desertifica le città, come in Roger & Me e The Big One; la crisi economica che colpisce sistematicamente i più deboli (Capitalism: a love story); l’opposizione alla lobby delle armi in Bowling a Columbine; il cono d’ombra della politica e la strumentalizzazione dell’11 settembre in Fahrenheit 9/11; e soprattutto Michael Moore in Trumpland, lo spettacolo teatrale del 2016 che insinuava una limpida e strisciante idea, le elezioni non erano ovvie, non tutto è come lo riportano. Qui Moore intreccia fili in un racconto frastagliato e discontinuo: il discorso macropolitico dialoga con la gente comune, la delusione obamiana va in montaggio alternato alle zone più povere (Flint ma non solo), la distrazione di Tv e giornali si avvicenda con lo sciopero degli insegnanti, i movimenti universitari, la protesta contro le armi: dal trumpismo ai nuovi attivisti si forma un pasticcio di sapori contrastanti che è, secondo lui, l’America. Il documentario di montaggio perlustra volti, dati e “rivelazioni”: alcune riassuntive e previste, altre di vera inchiesta (le analisi truccate sul piombo nell’acqua), alcune di acuta ironia e altre di sonora indignazione. L’autore è meno in campo, in età matura, e quando vi entra la provocazione diviene sempre più simbolica e formale: il Moore touch si conferma naturalmente altalenante, ma detiene il merito della diffusione (Fahrenheit 9/11: il maggiore incasso documentario di sempre) e ha seminato epigoni (Morgan Spurlock, Sabina Guzzanti). È anche manipolazione, appunto, finzione: in virtù della quale si può doppiare Hitler con la voce di Trump, perché in premessa lo storico di Yale Timothy Snyder specifica che non sono uguali («Non succede mai nella Storia») ma segnala un rischio, rileva uno scivolamento. Dov’è la verità? Ognuno ha la sua, compreso Moore, che lo nota e si fa quasi relativista. Propone una versione. Mette in dubbio, anche se stesso: la filippica finale viene interrotta da un falso allarme nucleare.

Nel documentario americano oggi, con le dovute sfumature, due sono i poli: da una parte Frederick Wiseman, l’entomologia dello sguardo che conduce a un risultato scientifico e produce capolavori. Dall’altra Michael Moore, il pamphlet furioso sullo stato delle cose che porta a una chiamata alle armi. Modi opposti di essere politici. Moore ha sempre fatto cinema che esagera volutamente e, nel suo evidente rimestare, qui si fa problematico. Alla fine lascia un dubbio, nascosto nel ghigno di Trump, nel bicchiere di Obama, nei visi dei poveri: e se ci fosse un altro racconto? La domanda è etica, ma anche visiva. Moore indica un’altra cosa. Ci fa vedere un punto diverso. Una parte terza che smaschera le altre: la recita di un presidente non inganna un regista perché anche lui conosce l’immagine.
Prendere o lasciare. E, soprattutto, guardare.