Drammatico, Recensione

FACTORY GIRL

Titolo Originale
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2006
Durata91'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

L’incontro di Andy Warhol, checca vanitosa furbastra e insensibile, con la bella e sventurata Edith (Edie) Sedgwick, rampolla d’una delle più ricche famiglie del paese. In breve lei diventa un’icona pop, ma in un tempo anche più breve viene scaricata da Andy – da cui voleva essere amata, non idolatrata – e dalla bella famigliola. Dal glamour all’horror di un’esistenza segnata.

RECENSIONI

Gioca fino in fondo la carta del martirologio, Hickenlooper, e mal gliene incoglie; sia sul piano tematico che su quello espressivo. L’intrecciarsi della vicenda della protagonista col variopinto universo warholiano poteva essere un’occasione per inquadrare l’incidenza delle provocazioni della factory – al di là delle patologiche preoccupazioni di un padre padrone e di una madre succube – sulla società e il costume di quegli anni; ma il regista preferisce scatenare una caccia al capro espiatorio, identificando nella frequentazione del capriccioso esponente della pop art e dei suoi accoliti la causa prossima del precipitare di Edie Sedgwick nella tossicodipendenza, e della di lei rovina; circostanza sulla quale cronaca e testimonianze hanno sollevato una montagna di dubbi. Ciò che conta, naturalmente, non è che il regista abbia deciso di interpretare il reale colmando, perfino arbitrariamente, le lacune della conoscenza storica, ma la chiave interpretativa offertane, che è appunto di tipo sacrificale. Concentrando l’attenzione sull’essere vittima della vittima, l’autore si è anche precluso un’altra strada: la verifica dell’ambiguo rapporto di Warhol con quella società dello spettacolo effimera e gratificante che la sua arte oggettivava criticamente, al tempo stesso servendosene come formidabile trampolino di lancio (e di rilancio); l’ottica moralistica e ricattatoria dalla quale viene osservata la triste vicenda della Sedgwick impedisce di far luce su quell’operazione di abnorme ingrandimento, di estraniamento e di stordente reiterazione a cui vengono sottoposti gli oggetti insignificanti della quotidianità (ivi compresi i volti e i corpi che popolano il mondo dello spettacolo) affinché assurgano al ruolo di icone; una luce che oggi sarebbe quanto mai gradita, a fronte dell’ilare indifferenza con cui – dopo anni di saccenti speculazioni semiologiche, è il colmo! – sembriamo dare per scontato lo scenario di feticci nel quale ci muoviamo.
Ma, come si è detto, Hickenlooper preferisce affidarsi a un moralismo polveroso, che dà spropositato rilievo alla fragilità – meglio sarebbe dire l’inescusabile stupidità – di una ragazza d’ottima famiglia che gioca alla trasgressione, restandone schiacciata quando si rivela nient’affatto padrona del gioco non avendo compreso che il suo egocentrico mentore, sordo a esigenze affettive diverse dalle proprie, ne sta conducendo uno del tutto diverso (e coerente con la poetica dell’assoluta fungibilità delle immagini pop-art). Le scelte espressive vanno a rimorchio del conformismo dell’autore: insistiti primi e primissimi piani su volti frignanti o ghignanti o smorfiosi, frequenti dettagli su iniezioni di stupefacenti (Christiane F. style), un incontro erotico visualizzato come potrebbe farlo la réclame di un profumo di lusso, una scena madre abbastanza riuscita ma prevedibile… luoghi comuni, piagnistei generazionali, lamentazioni sul tristo andazzo dell’epoca. In simile contesto, solo irritazione suscitano la bravura mimetica di Pearce e quella, sofferta ma degna di miglior causa, della Miller (bella e sexy anche quando oltraggiata o penitente); una certa compassione nella sua viltà (per timore di controversie giudiziarie, immaginiamo) provoca invece l’improvvisa reticenza nell’identificare in Bob Dylan il musicista che incantò di sé la bella Edie, per poi abbandonarla al suo destino.