TRAMA
2011. I Duran Duran in concerto al Mayan Theatre di Los Angeles: David Lynch dirige le riprese e manipola le immagini del concerto in diretta.
RECENSIONI
Si dia atto ai Duran Duran non solo di aver resistito (dei gruppi anni Ottanta che contano sono tra i pochi superstiti), ma anche di essere invecchiati benissimo, musicalmente e scenicamente, di non aver mai ammainato la bandiera, di aver sempre concentrato gli sforzi per mantenersi - suoni e stile - al passo coi tempi, a volte faticosamente, a volte con sorprendente scioltezza, comunque di aver sempre saputo reagire alle quasi scissioni (Arcadia vs. Power Station) e alle cadute (i dischi flop), di aver ripreso caparbiamente in mano il destino di una band forte più delle contingenze (gli innesti e gli addii: Cuccurullo; gli abbandoni e i ritorni di fiamma: due dei tre Taylor che entrano ed escono dal combo) e di quella moda che, essendo stata la loro delizia, a dispetto di quanto profetizzato dai detrattori, non è mai diventata la loro croce.
Anche questo progetto, prima che come un lavoro di Lynch, va visto come il tentativo di piazzare un visual di prestigio in una carriera che, anche da quel punto di vista, non ha lasciato nulla al caso. A cominciare dalla pletora di clip tratti da Rio, a firma Russel Mulcahy, ripresi a tamburo battente dagli allora nascenti canali tematici, heavy rotation che fu la madre di tutte le albe della video-fruizione per come lo conosciamo oggi; si pensi, per tutti, alla mollezza esotica del quintessenziale Save a Prayer dove le immagini della band - incastonata ad arte in scenari incantati, tra buddha incombenti ed esoterismi vacanzieri - sottintendevano gaudenti fuoriscena; in cui, insomma, i solenni templi cingalesi prefiguravano sì derive nobilmente spirituali, ma di cui uno spazioso letto a baldacchino, con morbidi veli gonfiati dal vento, costituiva l'unico pragmatico altare («non recitare una preghiera per me adesso/ serbala per domattina»: più chiaro di così...). Frammenti che facevano sognare (i Duran, le star da possedere, in tutti e con tutti i sensi) e che si incastravano a formare il perturbante puzzle che per alcune stagioni solleticò ad arte gli ormoni in subbuglio dei teenager di ogni sesso (la censuratissima lotta nel fango di Girls on Films, diretto da Godley & Creme; le morbosissime fantasie sadomaso di The Chauffer di uno Ian Emes mai più così decadente). E avanti così.
Si dia atto al gruppo anche di essere in ottima forma: il set live è bello carico, la messa in scena dinamica senza sforzi, ottimo come sempre il suono, le ospitate funzionano (Gerard Way, Beth Ditto, Kelis, Mark Ronson), le melodie assassine, di un repertorio a prova di bomba, ancora lì a fare il loro sporco lavoro. E Le Bon che non sbaglia una nota a pagarlo. Il perfezionismo delle esibizioni, del resto, dopo gli zoppicanti inizi live, divenne una delle loro indiscusse costanti (riascoltarsi Arena), performance lustrate al punto da far muovere stizzite critiche (ma allora che differenza c’è col disco?). Si cercava il pelo nell’uovo: con i bistrattati Duran ce n’era sempre una, tanto che, anche quando sfornavano un signor disco (Notorius, prodotto da Nile Rodgers, che uscì - e questo sì che è molto lynchiano - poche ore prima della morte di Cary Grant), spuntava comunque il guastafeste che aveva piacere a metter becco.
Unstaged è parte di un progetto che ha coinvolto grandi firme (Herzog, Gilliam, Corbijn) per dirigere in diretta esibizioni concertistiche di altrettante star della musica internazionale: il nome di David Lynch - regista assente dalle sale da un bel po', ma sempre amatissimo, citatissimo, adoratissimo e quindi vendibilissimo - ha indotto a trasferire questa esperienza dal canale Vevo alla sala, passaggio, questo sul grande schermo, che rischia di far sembrare l'operazione più importante di quel che in effetti è.
Siamo dalle parti del VJ Set, in cui il regista improvvisa manipolazioni visive sulle immagini del concerto in divenire: mentre il bianco e nero e le evoluzioni nervose della macchina a mano tendono a smentire la corretta e pedissequa cronaca concertistica, gli interventi in sovraimpressione darebbero la definitiva stangata arty alle immagini. Peccato che i due livelli coesistano forzatamente, facendo suonare i treatment di Lynch come gratuita sovrastruttura, e che tutto si muova piattamente sullo stesso dispositivo; così le visioni ossessive e riconoscibili (una, massimo due, a pezzo) fanno solo griffe: in Notorius il motivo hitchcockiano della spirale, in Rio l'acuto rovesciamento col fuoco a dominare, mentre il tema della spettatrice che, come in INLAND EMPIRE, guarda lo spettacolo da casa è leit motiv debole e pretestuoso che denuda l'applicazione coatta dell'idea.
Poca cosa, insomma, che si pregia di un solo momento veramente suggestivo (The Man Who Stole the Leopard, più complesso e lavorato, e non a caso, all'epoca, 2011, rilasciato come videoclip a sé) e di qualche vezzo simpatico (la sottolineata cresta rossa di Gerard Way, filologico rinvio all'estetica anni Ottanta, nostalgica madeleine neoromantica).
Per soli duraniani.
