Drammatico, Musical, Recensione

DREAMGIRLS

Titolo OriginaleDreamgirls
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2006
Genere
Durata131'
Sceneggiatura
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Nell’America degli anni Sessanta l’ascesa al successo di tre giovani cantanti, da coriste a leader delle classifiche pop. Grazie ad un discografico con molto fiuto e pochi scrupoli che finisce anche per spezzare la coesione del gruppo.

RECENSIONI

Tratto da uno spettacolo che a Broadway ha costante successo dall’inizio degli anni Ottanta, Dreamgirls è stato presentato come il musical dell'anno ed annunciato come futuro trionfatore agli Oscar – salvo essere poi molto ridimensionato dalle nominations (8, ma nessuna di primaria importanza e ben 3 solo per la miglior canzone). Al momento della visione, il film si è alla fine rivelato una sostanziale delusione. Dreamgirls traccia un ritratto abbastanza interessante dell'ambiente della discografia nera americana tra anni Sessanta e Settanta, si appoggia su buone canzoni, su una ricostruzione validissima in termini di costumi, trucco, scenografie, su un ampio ed ottimo cast. Ma non offre molto di più. Soggetto e sceneggiatura sono decisamente poveri e banali, appesantiti da stereotipi e prevedibilità. Lo svolgimento della trama è estremamente piatto e ogni sviluppo è telefonato (per non dire di alcune cadute come il “riconoscimento” finale della bambina da parte del padre). La psicologia dei personaggi è altrettanto superficiale e poco originale, dalla bella senza personalità che solo alla fine riesce a riprendersi la propria vita, al manager senza scrupoli e bugiardo (metaforicamente ex venditore di auto), fino al vecchio agente legato alla vecchia etica e destinato a farsi da parte nel mondo dominato dai nuovi non valori. L’interessante contrapposizione iniziale tra musica nera e musica bianca, tratteggiata vivacemente con non poca ironia, lascia purtroppo il posto a temi più scontati come l’apparenza che conta più del talento ed inventa la sostanza, l’ambizione che fa strage dei sentimenti e della lealtà, il successo che nell’ordine esalta, spersonalizza e rende schiavi. Se il film regge le oltre due ore quasi sempre senza noia è alla fine per il semplice intrattenimento dei buoni numeri musicali e dell’atmosfera sixty-seventy.
La vera grande sorpresa del cast è il travolgente Eddie Murphy, che finalmente si ritaglia un ruolo in grado di valorizzare la sua verve ma anche di metterlo alla prova sul piano drammatico. Murphy si fa trovare pronto a sfruttare l’occasione e dona la sua interpretazione migliore mostrando di saper cantare e dando vitalità ad un navigato cantante R&B sopra le righe e marpione, scatenato e tragico (il suo percorso di autodistruzione è anch’esso, per la verità, già visto e prevedibile, ma almeno è reso nel migliore dei modi). Nessuno degli attori sfigura, d’altra parte: Jamie Foxx interpreta molto bene il suo protagonista negativo, Danny Glover fa altrettanto, la cantante Beyonce è adatta alla sua parte. Nel ruolo più importante c'è invece Jennifer Hudson, una giovane cantante dalla gran voce proveniente da una sorta di reality/talent show americano (L’America non è l’Italia!) che si mangia la già affermata e cinegenica Beyonce. Si era visto comunque molto di meglio già in Chicago (del quale il regista Condon è stato sceneggiatore), per non parlar del ben più creativo Moulin Rouge.

Bill Condon, con talento più nella scrittura che nella messinscena, traspone il musical di Broadway con libretto di Tom Eyen e musiche di Henry Krieger andato in scena per la prima volta nel 1981 con la regia di Michael Bennett: Eyen aveva già raccontato per il proscenio un musical biografico su Sarah Bernhardt e, con questo, ha ottenuto il suo più grande successo, inventando personaggi noti facilmente riconoscibili senza riportarne canzoni o nomi. Le Dreamettes/Dreams sono le Supremes di Diana Ross, Eddie Murphy è un mix di James Brown e Little Richard, ci sono anche i Jackson 5 e B.B. King. Le canzoni di Krieger, preponderanti, non sono eccezionali perché, per lo più, imitano brani famosi con melodie più scadenti (due composizioni, però, si stagliano, fra cui quella funky in cui Eddie Murphy si spoglia in diretta): in modo intelligente, Condon le trasforma in dialoghi cantati o in esecuzioni “in diretta”. I protagonisti cantano e ballano ogni quattro minuti e le loro parole sono diegetiche al dramma in corso, senza offuscare, almeno nelle intenzioni di Condon, il contesto storico e politico: oltre agli inserti su MLK e i tumulti a Detroit, il fulcro del racconto narra del tentativo dei manager neri (il Curtis Taylor di Jamie Foxx rappresenta il Berry Gordy della Motown) di scalare le classifiche con i loro artisti, stufi di vedere i loro successi R&B rubati dai bianchi. Nel farlo, però, hanno favorito il whitewashing degli afroamericani, per renderli più accettabili: anche per questo il concerto finale delle Dreams, con reunion di quelli lasciati indietro (fino al suicidio) è commovente. La vera differenza nel film, però (senza nulla togliere a Beyoncé: bella e brava), la fa l’esordiente Jennifer Hudson: una forza della natura, come presenza scenica e come voce alla Aretha Franklin. In questo senso, il lungo brano con dialoghi cantati in cui viene allontanata dal suo amore e dal suo gruppo vocale, è da antologia.