TRAMA
Pepa è convinta che il suo amante sia tornato dalla moglie. A casa si ritrova il figlio di lui, la fidanzata e l’amica Candela, invischiata con alcuni terroristi sciiti.
RECENSIONI
Film sulle frustrazioni femminili nei rapporti d'amore con lo stile amaro/grottesco almodovariano che, da qui in poi per il successo ottenuto anche all’estero, diventerà brand codificato, fruibile da tutte le platee e con oltraggi più digeribili rispetto alle opere precedenti, strambe e con cultori di nicchia. Addomesticato in una cinefilia più identificabile (da Minnelli alla screwball comedy) e in una narrazione più composta, lo sguardo alieno dell’autore diventa appetibile e piace trasversalmente: il mélo in ridere, i colori accesi alla Russell Metty (qui domina il rosso), certe lungaggini (il prologo), la materia volutamente dispersiva, il pop basso e l’ammiccamento. Non sempre brillante, non sempre intrigante, Almodóvar sa però cogliere il mondo dei sentimenti con un occhio da e per il femminino, spesso con grande sensibilità (e sarcasmo), per poi gettarlo, tipico della sua vis comica, in un limbo i(per)reale e simbolico, dove associazioni varie e atti buffi sostengono la discontinuità della drammaturgia (nata come monologo teatrale): Pepa, ad esempio, fa la doppiatrice e presta la voce anche alla Joan Crawford di Johnny Guitar, mentre l’amante Ivan fa Sterling Hayden, con tutte le conseguenze del caso (vivono il loro amore per interposta persona, continuano l’inganno del linguaggio anche nel privato); poi c’è il j’accuse alla telefonia con cognizione di causa, dato che Almodóvar ha lavorato per dieci anni a “Poste e telefoni”. E così via. Comunque, l’Almodóvar degli anni ottanta, per quanto baciato da grande successo di pubblico, non aveva ancora trovato quell’equilibrio della maturità fra pathos genuino, irriverenza comica, citazionismo e sapori di plastica sopra le righe. Goya per il miglior film.