TRAMA
Il film racconta la storia dell’incidente avvenuto sulla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nell’aprile del 2010 a partire da un padre di famiglia divenuto eroe per caso perché trovatosi a lavorare sulla piattaforma proprio quel giorno.
RECENSIONI
Peter Berg non è sicuramente un regista dalla poetica inconfondibile o un autore con la A maiuscola; di questo siamo abbastanza certi, così come del fatto che difficilmente lo diventerà. Tuttavia, Berg è un uomo di cinema fortemente rappresentativo di Hollywood: uno che ha fatto la gavetta, che sa come si fanno i film perché l'ha imparato partendo dal basso fino ad affermarsi come una figura polifunzionale in grado di ricoprire i ruoli di sceneggiatore, regista e attore, sia in campo cinematografico che nella serialità televisiva.
È forse proprio per la sua adattabilità e per la sua capacità di lavorare con i grandi divi hollywoodiani che Berg è stato scelto per dirigere un progetto così complicato come Deepwater; un film che presupponeva la presenza di un regista in grado di far lavorare sullo stesso set attori di grande caratura internazionale ma soprattutto di coniugare anime sostanzialmente molto diverse in una sola pellicola, tentando di rientrare in un budget che tenesse conto della necessità di bruciare una piattaforma petrolifera e mettere in scena esplosioni di medio-alta intensità. La mano di Berg però non solo non è visibile – il che presumibilmente non rientrava nemmeno tra le aspettative principali degli spettatori così come dei committenti e produttori – ma risulta anche molto fragile, fallendo la prova di obiettivi forse un po' troppo alti per le sue capacità registiche, non riuscendo a donare la compattezza e coerenza stilistica necessarie per un'opera del genere.
Il problema cruciale del film è legato alla distanza siderale tra gli ambiziosissimi propositi e il mediocre esito finale, un gap innegabile che dà luogo a un'opera che vive sostanzialmente solo delle proprie potenzialità, dietro la quali purtroppo c'è molto poco, e quel che c'è è decisamente deludente.
Il tentativo di Peter Berg si basa sull'unire da un lato la storia vera da denunciare (esempio del malfunzionamento di tante piattaforme petrolifere ed emblema della prossimità della tragedia quando condizioni a così alta pericolosità vengono gestite senza la massima attenzione) all'anima più vendibile, almeno sulla carta, del disaster movie: il racconto di uno dei più scandalosi e dannosi incidenti ambientali della recente storia americana, trasformato in un blockbuster in cui regnano esplosioni, eroismo e la consueta apologia dei valori dell'amicizia virile e della famiglia.
Fondere due anime così lontane era un'impresa ardua, che avrebbe necessitato un regista di tutt'altra caratura, abile a girare film ad alto budget con magniloquenti scene d'azione ma al contempo dotato della sensibilità necessaria ad andare in profondità su alcune questioni senza appiattire il lato reportage.
Deepwater, invece, è un film che più volte cerca di agganciarsi alle vicende realmente accadute lanciando semplicistici anatemi ecologisti dal sapore un po' posticcio, finendo in realtà per banalizzare la complessità dell'argomento e impoverirne anche il lato investigativo, sorvolando sulle cause e le responsabilità dell'incidente. Anche il versante action è relegato solo al finale, col risultato di rendere la prima metà del film troppo introduttiva e verbosa, facendoci pensare che le pur belle scene d'azione che dominano il climax dell'opera avrebbero meritato molto più spazio.
A penalizzare il film c'è anche il pesantissimo impatto dei suoi interpreti, i cui grandi nomi nascondono un divismo di seconda mano: a cominciare dai due anziani del lotto, star celebratissime come Kurt Russell e John Malkovich che però (a differenza dei fasti del passato anche recente) troppo spesso troviamo oggi in film come questo a ricoprire quasi soltanto il ruolo di attrattiva per la distribuzione in sala, forti di un nome e di una fanbase più legati a ruoli di culto che a una performance recitativa di qualità; resta solo il potere del blasone o poco più a sancire il trionfo della logica del personal brand, che vive di se stesso e attraverso se stesso.
La coppia romantica al centro della scena è incarnata da altri due interpreti che, sebbene più giovani dei primi due citati, non smentiscono la volontà del film di Berg di ridare voce e visibilità ad attori la cui carriera è quantomeno in fase calante. Kate Hudson infatti non si vedeva in produzioni importanti da un po' e i momenti in cui era tra le regine della rom-com a stelle e strisce appaiono oggi molto lontani, soprattutto a causa di una recitazione profondamente involuta rispetto al passato. A questo proposito è impossibile non chiamare in causa, anche e soprattutto, il protagonista Mark Whalberg, il cui corpo arriva sui nostri schermi segnato dal passare degli anni, sia nel viso che in un atletismo fisico ormai poco credibile. Nel suo caso, ancora più che in quello di Kate Hudson, le trasformazioni fisiche sembrano averne un po' anche appannato le doti attoriali del passato, in particolare se pensiamo alle performance di grandissima intensità fino a qualche anno fa, in particolare nei film diretti da James Gray.
A dare una nota di freschezza e di contemporaneità al parco attoriale c'è Gina Rodriguez (protagonista della serie tv meta-soap di CW Jane The Virgin) in un ruolo da coprotagonista che le si addice, anche se risulta decisamente sottoutilizzata da Peter Berg in termini sia di screentime che di qualità del ruolo.In sostanza, Deepwater delude sotto quasi tutti i punti di vista: un film che vorrebbe essere una critica al capitalismo americano – senza riuscire neanche ad avvicinarvisi – e che al contempo riesce a essere debole anche sulle logiche del blockbuster contemporaneo, restituendoci personaggi di cartapesta senza alcuno spessore che richiedono un'abbondante sospensione dell'incredulità e si dividono in maniera fin troppo dicotomica tra insipidi eroi e macchiette che aspirano al ruolo di villain.