Drammatico, Recensione, Sala

C’MON C’MON

Titolo OriginaleC'mon C'mon
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2021
Durata108'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Johnny è un giornalista radiofonico che viaggia per il paese intervistando molti bambini. Quando è costretto a prendersi cura del suo giovane nipote, il ragazzo porta una nuova prospettiva nella sua vita.

RECENSIONI

Sotto la tanto criticata patina indie, sotto le stramberie che hanno fatto la fortuna e la sfortuna di un genere (perché oggi questo è, mica un bollino che ricorda le vicende produttive di un film), sotto i personaggi sghembi che popolano questo universo così hipster e modaiolo, il cinema di Mike Mills si è sempre contraddistinto per uno sguardo che, lungi dall'essere egotico e narcisista, sa invece osservare con discrezione e misurata partecipazione, aprendosi costantemente ed esplicitamente ad un oltre capace di mettere in relazione la storia e la Storia, il pubblico e il privato, l'autobiografia e la narrazione (nel bellissimo Beginners c'è già tutto). La grandezza è anche qui: in questo mondo, in cui il cinema e la vita non sono altro che una continua (ri)educazione sentimentale (a tredici anni come a settantacinque, nell'adolescenza e in età adulta, in salute e in malattia, finché morte non sopraggiunga) i personaggi non soffocano mai nelle maglie della loro inadeguatezza, non rimangono mai prigionieri di uno sguardo che vampirizza le loro stravaganze per offrire al pubblico occhi lucidi e risate sofisticate. Insomma, Mills non si pone mai al di sopra delle vicende che racconta, ma pare invece il primo ad essere coinvolto in questa ricerca, la sua scrittura dispiegandosi tra molte domande e poche, pochissime, risposte.

C'mon C'mon, in questo senso, scopre finalmente le carte, inaugurando il discorso con una battuta che svela limpidamente le regole del gioco: «I'm gonna ask you a series of questions and there are no right or wrong answers». Ecco allora che l'apertura verso quell'oltre cui si accennava in precedenza, che nel già citato Beginners e in Le donne della mia vita aveva la forma stilistica dell'inserto enciclopedico o dell'elenco, qui si manifesta in chiave apertamente meta-discorsiva, attraverso le interviste (vere) che punteggiano la narrazione, le quali sembrano voler esplicitare prima di tutto la dimensione interrogativa dell'opera. «So when you think about the future, how do you imagine it'll be?»:  sono domande che Johnny, giornalista radiofonico, rivolge a ragazze e ragazzi di molte parti d'America, in un movimento wendersiano (in primis, ovviamente, Alice nelle città) che, mantenendo quel costante dialogo tra pubblico e privato, attraversa sia spazi periferici diventati simbolo di una catastrofe naturale dalle dimensioni epocali (New Orleans), sia luoghi-immagine centrali e complessi come Los Angeles e New York, in cui le drammatiche vicende di una famiglia in difficoltà a causa della malattia mentale, restano intime e private.
E ancora, si tratta di un dialogo che trova una perfetta corrispondenza anche sul piano visivo, in un'alternanza tra campi lunghi urbani e i primi piani domestici delle interviste; anche qui, il generale e il particolare, il grande e il piccolo, l'indifferente tempo della Storia e i sogni, le ambizioni, le speranze, gli sguardi di chi in quella Storia e in quelle città, semplicemente, vive, va avanti (c'mon c'mon), ricorda, dimentica. In quest'ottica allora, attenzione a liquidare il bianco e nero di Robbie Ryan come una cifra stilistica gratuita o scontata: è invece una scelta capace di restituire quella pacata universalità cui ambisce l'autore, che filma le strade e i volti come se fossero già spazi della memoria, parentesi riflessive catturate sì dal dispositivo, ma che il tempo, come ci viene ricordato a più riprese, farà probabilmente dimenticare.

Insomma, il presente secondo Mike Mills è già il momento della malinconia e della consapevolezza, mentre il passato è il territorio dei conflitti ancora aperti, per sanare i quali però spesso basta una telefonata. I suoi personaggi asincroni, bambini già molto maturi o adulti alla ricerca di una nuova vita e di un nuovo equilibrio, abitano questi spazi e questo tempo in punta di piedi, consapevoli della loro transitorietà e debolezza, eppure vivi, fragili, umani. Ridono e piangono (e che bella, che misurata, che vera la smorzata di Jesse sulle lacrime di Johnny, commosso dalla lettura di Star Child), si arrabbiano, si contengono, si nascondono, si interrogano. In loro e attraverso di loro, Mills cerca una tenerezza scevra da qualsiasi presunzione, riuscendo ad evitare (qui forse in modo meno convincente di altrove, ma non importa) qualsiasi forzatura o imposizione drammatica, qualsiasi insistenza morbosa sui sentimenti.
In fin dei conti, C'mon C'mon dice poco o nulla, e va benissimo così. Non arriva a nessuna grande rivelazione, nessuna epifania improvvisa, nessun climax emotivo; ascoltiamo decine di domande e decine di risposte certo, me nessuna più giusta o più sbagliata delle altre. Quello di Mike Mills è allora un cinema che, schivando qualsiasi chiusura dettata dal proprio punto di vista sulle cose, non è altro che la continua messa in scena di un processo, un costante e sincero interrogarsi sulla vita, sulle relazioni e sugli affetti, su padri, madri e figli. Che alla fin fine è questo che conta, ed è forse il massimo cui possiamo realisticamente e umanamente ambire.