TRAMA
New York viene improvvisamente attaccata da una misteriosa, gigantesca creatura. Ma c’è di più. E poi non è tanto il “cosa” quanto il “come”.
RECENSIONI
Delegando al commento in calce le considerazioni sulla (importante) questione viral marketing legata al film, ci togliamo subito il dente dell'introduzione 'rituale' per dire che, sì, l'idea alla base del progetto Cloverfield non è affatto nuova, che l'artificio del film-non-film/filmato 'trovato' si è già vista in Cannibal Holocaust, Il Cameraman e l'assassino e The Blair Witch Project, che recentemente anche De Palma si è fatto sedurre dall'effetto verità della ripresa a-cinematografica (Redacted) e che c'è comunque 'nell'aria' una voglia/ritorno di cinéma-vérité ( [rec] di Balaguerò, l'imminente Diary of the Dead di Romero). Volenti o nolenti, infatti, è difficile sottrarsi alle suggestioni reality della bassa definizione, del fuori fuoco, della sovra/sottoesposizione e del tremolio handycam. Se però, fino ad ora, l'espediente era stato applicato nel suo territorio d'elezione (il falso documentario/reportage), Abrams, Goddard e Reeves hanno deciso di spruzzare di realtà un genere del tutto alieno al realismo come il monster movie catastrofico, artificioso e ultracinematografico quasi per definizione. Il risultato è un film di genere quasi pienamente codificato nella sua struttura di base (prologo generosamente dimensionato, sottotrama sentimentale, attesa del Mostro, sua apparizione) che però applica/adatta alla forma inusuale per il contesto (la videoripresa amatoriale) altre anomalie extra-codice:
- il prologo è apparentemente avulso dal prosieguo fanta-, nel senso che non contiene i consueti prodromi del 'vivo dell'azione'
- la sottotrama sentimentale ha credibile consistenza narrativa, non sa di cut&paste richiesto (d)alla tradizione hollywoodiana ed è ben implementata anche a livello tecnico (i flashback e l'epilogo, emersioni carsiche della vecchia registrazione sovraincisa);
- l'attesa/apparizione del mostro aggiunge un terzo livello di suspense ai due canonici [1. attesa per saggiare l'incidenza diegetica del mostro - 2. attesa per constatare l'efficacia della realizzazione tecnica/effettistica del mostro - 3. (nuova, a sua volta bipartita) attesa (che non verrà delusa) per sincerarsi che il mostro, effettivamente, si vedrà e si vedrà bene ('non sarà mica tipo in debleiruiccprogect?') + attesa (ripagata anch'essa da una piena soddisfazione finale) per scoprire come verrà gestita la novità dell'effetto speciale filtrato e assorbito dall'effetto mini-DV]
- il finale della quest principale e delle varie side-sub-quest, tutti inusitatamente tragici e dunque trasgressivi rispetto alla tradizione di riferimento (Them! , King Kong, Godzilla ecc.).
Ebbene, tutte queste anomalie (meglio: la gestione intelligente, scaltra e creativa di queste anomalie) risultano assolutamente qualificanti per l'operazione e, insieme a un impianto comunque solido ed efficace (anche da un punto di vista 'tradizionale' si tratta di un monster movie teso, serrato e scandito col metronomo), rendono Cloverfield quell'oggettino affatto speciale che è. Con un difetto/limite, che gli si perdona volentieri anche perché, in qualche modo, connaturato alla sua peculiarità fondante e connotativa: la sospensione d'incredulità vacilla, allorquando ci si accorge della pervicacia con cui il personaggio-cameraman continua a tenere sempre e comunque la handycam accesa, traballante sì ma orizzontale, ad altezza ripresa (si ricordano pochissime ellissi e solo una veristica e realistica plongée sui piedi, e in una sola delle molte, drammatiche sequenza di fuga' un po' poco, benché il personaggio stesso ribadisca più volte la sua volontà di documentare tutto) e anche l'eccessiva fi/unzionalità di alcune inquadrature (il primo piano del re-incontro tra Rob e Beth, ad esempio) forza decisamente i limiti del '(non)-regista-per-caso'. Ma vabbè. Ah sì, dimenticavo: alcune sequenze della prima fase dell'attacco (lo tsunami di polvere e macerie, gli A4 svolazzanti) fanno molto undicisettembre ma, se proprio si vuol definire Cloverfield come un 'film post 11/9', la definizione va riferita senz'altro a questioni di tipo estetico (i videoamatori che documentano la Storia e riprogrammano l'immaginario visivo, e dunque anche cinematografico, della 'gente') più che al solito, etico chiacchiericcio sul nemico, il terrore e affini.
Ennesima scaltra operazione da parte di J. J. Abrams, probabilmente il produttore più chiacchierato del momento (Lost, Alias, Felicity), che escogita non solo un sistema paratestuale di goniometrica precisione pianificando un gioco di aspettative abile e fantasiosamente bizzarro, ma esibisce anche con inattesa sfrontatezza (ed è forse la cosa che abbiamo apprezzato maggiormente) un ragionamento sui linguaggi cinematografici. Il monstrum da mostrare è innanzitutto creato in laboratorio come qualsiasi prodotto cinematografico proveniente dall’impero mainstream, si comincia a parlare del prodotto e a lanciarlo parecchio tempo prima che il prodotto esista, a monte di ogni cosa è importante nominare l’oggetto del mercato, possibilmente a partire da un brand di sicura riconoscibilità (la Bad Robot in questo caso), dopodiché occorre che il marketing segua la sua naturale parabola evolutiva sfruttando tutti i canali pubblicitari conosciuti; se The Blair Witch Project - esemplare assai poco elaborato sotto questo profilo - aveva illo tempore fatto il giro del mondo tramite internet, figurarsi Cloverfield. Il fenomeno, ossia l’equivalente greco del latino monstrum, è di natura esclusivamente mediatica, il paradigma lucasiano non ha solamente e semplicemente creato un nuovo modello socio-semiotico su vasta scala di réclame cinematografica affiancando o in qualche modo sostituendo quello hollywoodiano classico basato sul divismo, ha originato altresì una vera e propria messa in mostra di apparati paratestuali, e quando si parla di “mostri” le dimensioni contano. Sempre.Cloverfield rappresenta in questi termini l’esempio inequivocabile di come l’industria cinematografica statunitense si sia riappropriata di un nuovo impero dei segni per cui un testo non è più in grado di prescindere dal suo paratesto. Il testo mostra di contenere il suo “oltre” che non è più identificabile con il suo “altro”, assumendo già il suo “pre” e il suo “post”.
Naturalmente la strategia promozionale irrobustita dal sistema di marketing virale (dai blog al merchandising, dai fake spot a quella sorta di lookeys vontrieriani) è parte integrante del film senza esaurirlo. C’è pur sempre un “testo” nel testo, e il pretesto del monster movie che non figuri come banale omaggio ai b-movies americani dei fifties o ai kaiju nipponici (in questo senso funziona assai meglio una deliziosa pellicola come Host) ma sia in grado di accogliere una sedimentazione di significati, dalla paranoia post 11 settembre (la quale ha di per sé generato un’autentica mutazione dell’immaginario per cui la sostituzione delle Twin Towers in luogo dell’Empire State Building kingkonghiano pare oramai irreversibile) al declino del modello economico neoliberista, risulta escamotage particolarmente indovinato. Il movimento semantico alimentato da un genere come il monster movie ammette un divertissement segnico a più livelli e Abrams e Reeves sembrano allora divertirsi e divertire nell’inscenare questa guerra tra mostri, che si configura poi come una battaglia imperiale: c’è un moloch (sinonimo d’impero) – New York - la Statua della Libertà - gli Stati Uniti – che viene apocalitticamente abbattuto da un leviatano nemesiaco dagli ennesimi plurisignificati, scena che si svolge davanti alla volontà di potenza di un altro temibile mostro, il mezzo audiovisivo, riferimento diretto al medium cinematografico e conseguentemente all’impero mediatico, che in definitiva è il vero mostro, quello più terrificantemente vorace, che mostra e si mostra come macchina demoniaca indistruttibile la quale tutto divora, persino lo sguardo interdetto del mostrone là fuori, la bestia trionfale che si aggira tra le avenue newyorchesi. Ancora un inequivocabile conflitto di ipertrofie in cui entra in gioco (collusione/collisione) la grandeur di due imperativi non necessariamente antagonisti: distruggere sic et simpliciter da una parte, e dall’altra rendere riproducibile ovvero presentificabile l’evento-distruzione cui si sta assistendo. Se l’improbabile catastrofica violenza del mostro non sembra neutralizzabile, né arrestabile visto che il film furbamente non finisce (altro marchio di fabbrica abramsiano), l’imperativo cinematografico della wille zur macht dell’uomo con la macchina da presa non è da meno perché pur su piani diversi esiste un’equiparazione tra violenza del fare e violenza dello sguardo, tra violenza dell’atto e violenza dell’atto di vedere dell’ “occhio che uccide” [1] (libido scopica), il cui risultato con tutta la sua fortissima dose di sospensione dell’incredulità (l’urgenza documentaria esige un impatto realista ad oltranza ma il cinema d’intrattenimento detiene pur sempre la sua gerarchia di regole, prima tra tutte la comprensibilità del quadro visivo, non siamo ancora dalle parti di [Rec]) è depositato nel “per sempre-di nuovo” di un dispositivo di ri(-)producibilità. Proprio come nella colpevole ingenuità originaria (?) di Cannibal Holocaust, ma forse anche di 2001 e di qualsiasi “odissea” del(/nel) cinema. Si riparte da un monolito nero, perduto/trovato stagliato in un campo di trifogli.
Cronaca di un delirio critico-teorico: prima visione
Ad una prima visione, l'impressione è che si tratti di un film semplicemente epocale. Reset sull'immaginario. Entro in sala senza sapere una cippa (e scevro di hype, non seguendo serie televisive e non essendomi informato precedentemente). Mi trovo di fronte a una videoguerra dall'impatto devastante. Qualche trascurabile lungaggine di sceneggiatura (nella sequenza della festa e in pochi altri frangenti) e qualche stridente inverosimiglianza (dovuta comunque ad una padronanza di scrittura così mostruosa da degenerare inevitabilmente in autoindulgenza) non inficiano minimamente un film che in preda all'euforia arrivo a definire il Citizen Kane dell'immaginario postmoderno (collocato naturalmente nelle coordinate del macrogenere action/fantahorror/catastrofico/bellico/documentaristico). La riscrittura della realtà secondo parametri video è finalmente avvenuta. Da King Kong a Zombi, passando per Cannibal Holocaust e The Host (peccato non aver visto il recente blockbuster coreano D-War, che a occhio e croce c'entra eccome), Cloverfield frulla l'immaginario contemporaneo in un'estetica dell'impatto che è shock, stordimento e videosopravvivenza. La morale non è più etica, è ottica.
Cronaca di un delirio critico-teorico: seconda visione
Autoironia e autocritica: sono questi i due concetti che si impongono alla seconda visione. Gran parte dell'impatto, come prevedibile e previsto, evapora, lasciando spazio al lievito teorico che alimenta questa devastante scorribanda distruttiva nell'immaginario postmoderno. Si potrebbe parlare della messa in scena plug and play che innesta direttamente lo sguardo nel sistema nervoso della catastrofe. Videocamera maltrattata ma a prova di bomba, di esaurimento, di commestibilità. Lei sopravvive all'apocalisse. Lei è l'apocalisse. Si potrebbe parlare della scrittura, autentico esercizio di funambolismo e spericolatezza narrativa, vero e proprio skating tra le macerie del racconto, in cui i personaggi hanno comunque il tempo e lo spazio di definirsi come corpi e psicologie: caratteri in azione. E invece è bene parlare d'altro, del modo in cui Cloverfield mette alla berlina la propria esistenza, si suicida teoricamente nel momento in cui si dà a vedere. Dapprima assegnata a Jason (il fratello di Rob che non a caso è il primo a crepare), la videocamera va a finire nelle mani di Hud, il bonaccione (e frescone) del gruppo. Esaltante parodia dell'auteur borioso e consapevole, Hud cazzeggia a ruota libera con la videocamera riprendendo un po' a casaccio un po' no, rendendola a tutti gli effetti una protesi del proprio corpo. Anzi, facendosi inglobare da questa (sembra diventare invisibile dietro la videocamera, oggetto che tende a riassumerlo, a cancellarlo in quanto essere umano). "Io documento", ripete ossessivamente Hud, in evidente trance da real tv. E qui veniamo al cuore pensante del film: Cloverfield (titolo che alla lettera significa "campo di trifogli", ma che contiene in sé l'anagramma di 'video') è la visione invasiva e non autorizzata (lo spettatore è programmaticamente collocato fin dall'inizio in un regime di illegalità: sta vedendo abusivamente dei filmati coperti da segreto militare), la visione rapace e insaziabile dell''immaginario cinetelematico contemporaneo (la paura di finire su internet espressa da Beth è il rovescio della medaglia dell'ansia documentaria di Hud). La voracità con cui la videocamera-Hud si nutre degli eventi disastrosi e cruenti (come nel caso "sconsigliato" del soldato sventrato trasportato in barella) e fagocita le immagini che incontra sul suo cammino (parassitando i videofonini durante la festa, vampirizzando il televisore di casa, divorando i monitor nel negozio preso d'assalto) ci dice che l'autentico mostro è questa visione affamata di sangue e di carne delle persone ("mangiava gli uomini", ripete sconvolta Marlena). Con la stessa impassibile implacabilità dell'operatore dei Quaderni di Serafino Gubbio, Hud, ormai totalmente assorbito e ammaliato da Cloverfield, riprende tutto, anche la propria morte, ché questa visione è talmente avida e vorace da chiedere sempre di più, fino all'annientamento completo. Chiunque abbia accettato la logica video soccombe. Cloverfield non perdona: il mostro si palesa tangibilmente proprio a Central Park, quando Hud va a recuperare la videocamera. Già perché è la videocamera (il suo sguardo in macchina non è abbastanza eloquente?). Una volta annientato Hud, Cloverfield svanisce in una messa a fuoco "peristaltica" (come se lo stesse digerendo). Ma il suo appetito è soddisfatto solo per un istante. Poi desidera tritare Rob e Beth, che gli si danno volontariamente in pasto nel più succulento dei modi: declinando le proprie generalità e dichiarandosi amore reciproco. Real tv perfetta. Alla fine dei titoli di coda un rutto.
Confidando in lettori (in generale) che (in particolare) abbiano acquisito, anche- e soprattutto- in questa stessa pagina, nozioni sulle modalità estetiche del testo e sulle caratteristiche peculiari del paratesto, mi limito a qualche considerazione banale, forse, ma à faire sul prodotto partorito da Abrams e crew. L’intera operazione Cloverfield è al contempo prezioso sintomo e critica allegoria dell’immaginario, ne è figlia legittima e trasfigurazione dissacrante. La campagna virale a cui è stata affidata la promozione del film è un atto di potere profondamente contemporaneo, processo creazionistico che plasma un mondo parallelo sfruttando il lavoro sinaptico dei navigatori, certo, e al contempo ne avvilisce- ovviamente- ogni plausibile slancio cognitivo: l’universo Cloverfield non esiste, le sue coordinate principali sono informazioni slegate e isolate date in pasto ai nostri cervelli che, tramite goffi processi inferenziali sul nulla, insinuano, facendo ipotesi che divengono la struttura portante, la madre terra, il contenuto di questo mondo. Il contenuto, come ogni teoria sui personal media insegna, siamo noi. Così il film fa di questo noi l’assoluto protagonista, la parzialità della conoscenza è nei limiti di sguardo della handycam che attraversa frastornata il contesto: la fisiologica focalizzazione interna frustra, anche qui, ogni pretesa conoscitiva, le cose avvengono, nella loro feroce istantaneità- punto- inutile chiedersi il perché. La scelta è radicale. Il senso profondo sta sempre oltre: responsabile di tutto, inattingibile da chiunque. Il Potere è indefinibile, impossibile da scalfire, irraggiungibile: nell’illazione di Hud circa la possibile matrice terroristica del disastro è il pregiudizio dell’immaginario a parlare, non la datità della realtà. Siamo ancora noi. Noi con un insaziabile impeto documentaristico che fagocita l’emozione superficiale della realtà, ma a cui è proibita la profondità. Impeto generato non tanto dal desiderio di verità quanto da quello di immortalità, complesso della mummia legato all’immagine, a cui relegare - nel contesto della Storia - la Tragedia personale, il Mito di una morte per amore, la scena già vista alla nausea di un “Ti amo” confessato un attimo prima di morire.Cloverfield, immersione totale e distacco sardonico, si ciba dell’immaginario contemporaneo e ne cristallizza le contraddittorietà, ne è il prodotto, ma al contempo, il più fine analista. Utilitaristicamente, sfacciatamente, vittima e, spietatamente, carnefice.
In principio era il passaparola, pubblicità spontanea e gratuita, che parte 'dal basso' diffondendosi da consumatore a consumatore, risultando così più credibile ed efficace del normale 'consiglio per gli acquisti' eterodiretto. Potente. Ma dalle dinamiche di funzionamento poco addomesticabili, difficilmente gestibili ed orientabili. Poi è arrivato Internet: quale mezzo migliore per tentare di ingabbiare l'altrimenti indomabile passaparola? 1996: Get your private free email from Hotmail, la gente prova, funziona davvero, si diffonde il virus e ha inizio il 'Marketing Virale'. Il principio è quello di 'stimolare gli individui a trasmettere ad altri e a diffondere un messaggio di marketing generando il potenziale per una crescita esponenziale della notorietà e dell'influenza del messaggio stesso' (Wilson). Ed è ovviamente auspicabile e bene accetto l'uso parassitario di reti pre-esistenti che garantiscano la diffusione capillare dell'idea-virus, concettualmente assimilabile al 'meme' dawkinsiano (unità di imitazione culturale che si comporta come un vero replicatore, ossia come un gene). J.J.Abrams sembra aver pensato esattamente a questo, quando ha pianificato le strategie di promozione del suo Cloverfield, disseminando una serie di indizi/segni misteriosi e/dunque assai cool da dare in pasto (soprattutto) al popolo della rete (mi scuso per questa definizione stantia ma al momento non me ne vengono altre) in modo che si replicassero e diffondessero a macchia d'olio. Molto brevemente: cinque anni fa, in una puntata di Alias (ideato e prodotto, com'è noto, dallo stesso Abrams), l'agente Vaughn offriva a Sydney Bristow una misteriosa bevanda chiamata Slusho!, poi riapparsa nella stessa serie e vista, recentemente, in mano ad Elle di Heroes e poi di tutto il cast dell'episodio 209 (foto visibili nel blog del produttore Gregg Beeman). Da qui la (già virale) caccia all'indizio in tutti i vari siti/blog dedicati alla/e serie. Salvo poi scoprire che la bevanda immaginaria Slusho è collegata al progetto Cloverfield, perché nel trailer del film un personaggio indossa proprio una t-shirt 'griffata' Slusho. Che poi, si verrà a sapere, la bevanda è prodotta dall'altrettanto fittizia compagnia giapponese di trivellazione Tagruato vittima di un terribile incidente documentato in una serie di falsi servizi telegiornalistici (di cui uno italiano) che mostrano il misterioso crollo di una piattaforma petrolifera nellOceano Atlantico, probabilmente collegato alla 'creatura' protagonista di Cloverfield. E il citato trailer? Pochi minuti girati con videocamera digitale, New York, una festa, distruzione in città, un ruggito godzilloide, una data (1-18-08) e stop. E poi siti misteriosi e siti ufficiali (1-18-08.com), foto sovrapposte e 'girabili', frasi da decifrare, indizi, fumo, un 'nuovo' titolo, Cloverfield, un altro ancora più nuovo, Overnight, e poi di nuovo Cloverfield. E poi non scordiamoci di Slusho e Tagruato, sempre lì a stuzzicare gli appetiti. Come possono gli internauti resistere, non farsi 'infettare'? Ripensare oggi la 'geniale' strategia pubblicitaria di The Blair Witch Project sa di tuffo nella preistoria. Cloverfield, per il marketing, è davvero un case study di importanza virale.
Un ringraziamento a Giulio Sangiorgio