TRAMA
Dalla fine degli anni Sessanta all’inizio degli Ottanta, la vita nella “Città di Dio” (una favela di Rio de Janeiro) narrata da Buscapé, un ragazzo di colore che sogna di fare il fotografo.
RECENSIONI
Wag the God
Orrore e speranza in un inferno suburbano fatto (in ogni senso) di sangue e cocaina: il proiettile lacera, il coltello sfregia, l’occhio meccanico e serializzato uccide, vendica ma non redime. È tutto qui il film di Fernando Meirelles, e la secchezza quasi brutale del tema conduttore non è disprezzabile (mentre lo sono l’inesistente originalità e il vile tradimento delle premesse, vedi oltre). Questo supposto e supponente reportage, che tenta di essere dolente e acido, straniato e fremente, fallisce però su tutta la linea, per una ragione banale e basilare: la mancanza di una regia degna di questo nome. Scritto (da Bráulio Mantovani) con inesistente senso del pathos e una sfacciata propensione all’ammicco ruffiano (la sentenziosa voce narrante), CITY OF GOD è l’ambizioso oggetto audiovisivo messo a punto da un regista (definiamolo così per comodità) che possiede notevoli capacità tecniche e non vede l’ora di sfoggiarle, ma non dispone di un’idea visiva e/o narrativa che possa definirsi personale e, come se non bastasse, non sa riorganizzare gli altrui rimasticati frammenti in una forma minimamente interessante, limitandosi a ripetere all’infinito, come un disco fuori uso, alcune “trovate” [imbarazzanti in sé (una per tutte, il fermo immagine che introduce tutti i flashback, quasi innumerevoli)] che diventano presto insopportabili. Risultato: due ore di fuochi d’artificio che si compiacciono stolidamente della propria patinata fatuità, un centone di citazioni traballanti (Scorsese, Luhrmann, Tarsem e ovviamente uno dei produttori della pellicola, l’infausto Walter Salles), metafore di greve banalità (le GALLINE IN FUGA, emblema di un’indipendenza riconquistata a prezzo di lutto privato e doloroso esilio), vezzi metanarrativi di frusto appeal e nulla incisività (i mille volti della fotografia, un timido accenno di satira mediatica), maree di luci stroboscopiche, panoramiche “al cardiopalma” (un auspicio, più che altro), sgranature e dissolvenze pasticciate, una struttura ad anello che tenta invano di richiamare quella di PULP FICTION (ma basta una battuta di dialogo a ricordare la distanza da siffatto modello). Il ritmo asfissiante e le interpretazioni ululate accentuano impietosamente i crateri d’ispirazione. Evidentemente, Meirelles pensava a una tragedia postmoderna, densa di spiriti epici e grotteschi: purtroppo (per lui), la tragedia pretende decisione e inventiva, autentica disperazione e atroce magia, in una parola, stile. Se ci si limita a far roteare senza fine la macchina da presa, accatastando figurine e sfoggiando un’argenteria pacchiana, la meraviglia diventa tedio e l’ebbrezza alimentata dal luna park percettivo cede il posto alla nausea e allo sconforto. Di fronte a un simile scempio, si è indotti a rivalutare – su un soggetto non troppo differente – la sobrietà e l’intermittente ironia del Loach di SWEET SIXTEEN.

Interpreti pescati per le strade (Seu Jorge è invece un cantante di culto), riprese dal vero e fra mille pericoli nelle favelas, denuncia di uno stato di degrado fisico e morale allucinante: un “neo-realismo”, però, aggiornato con coraggio e rischio ad un’estetica moderna, da un lato scorsesiana e/ma anche scanzonata, dall’altro iperbolica (quindi il Brian De Palma di Scarface), fra montaggio veloce e macchina da presa vorticosa. Lodevole struttura ad incastri e flashback, magnifico approccio corale, divisione in capitoli, split screen, pizzichi di sociologia, tragedia greca, violenza stemperata nell’ironia, geniale scrittura fra disgusto e attrattiva drammaturgica. Come dice la voce fuori campo: “Se scappi sei fottuto. Se non lo fai, pure”. La pellicola di Meirelles non si piange mai addosso, perché basta il mostrato a far rizzare i capelli, e ha il coraggio di non essere mai manichea, nonostante tutto. Dolorosa, potente e generosa, è tratta da un romanzo fiume di Paulo Lins, con cui la co-regista di Fernando Meirelles, Katia Lund, diresse nel 2000 il cortometraggio Minha Alma.
