Drammatico, Recensione

C’ERA UNA VOLTA A NEW YORK

Titolo OriginaleThe Immigrant
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2013
Durata120'
Fotografia
Scenografia

TRAMA

1921. Alla ricerca di un nuovo inizio e rincorrendo il sogno Americano, Ewa Cybulski e sua sorella lasciano la natia Polonia e navigano verso New York. Quando raggiungono Ellis Island i medici scoprono che Magda si è ammalata e le due donne vengono separate…

RECENSIONI

Molto intelligente, forse troppo, James Gray nei quattro lungometraggi passati ci ha abituato a film che di fatto non erano che il loro scheletro, uno scheletro segnatamente letterario. Di carne intorno non se n'è mai vista, nemmeno nel caso di Two Lovers che pure tentava di rimpolparsi in qualche maniera. In The Immigrant, finalmente, la carne c'è e si vede. Essa consiste, semplicemente, nel rivestimento kolossal del progetto, nello sfarzo scenografico della ricostruzione di una New York di poco dopo la Grande Guerra, nelle straordinarie luccicanze giallo oro delle luci di un Darius Khondji sempre più impudicamente esibizionista. Non è un caso che si parli di scheletri e di carne: è normale che si tratti di incarnazione per un regista come Gray, affezionatissimo a sottotesti apertamente religiosi. Qui veniamo al punto più interessante del film: il modo in cui entrano in gioco le onnipresenti Radici Ebraiche. Se fino ad ora una delle cose che appesantivano il cinema di Gray era la declinazione di queste radici nel senso di una specifica appartenenza etnica, ora la posta si alza e la questione si sposta più in generale sull'iconoclastia: nel conflitto tra essa e la cattolica iconolatria, The Immigrant tenta di individuare nientemeno che l'origine mitologica di quello che fu il (breve) secolo a stelle e strisce.

I due uomini tra cui è divisa la (cattolica) polacca Ewa appena sbarcata nella grande mela prendono in tutta evidenza ognuno una delle parti in gioco. L'ebreo Bruno, spietato impresario teatrale (e lenone) messo in crisi dal consolidarsi del cinema, non fa altro che nascondere. Orlando, illusionista che entra in scena con un primo numero in cui levita con le braccia aperte a mo' di crocifisso, e con un secondo che consiste nientemeno che in una resurrezione, rivela continuamente alla vista ciò che dovrebbe rimanere nascosto (e a un certo punto è proprio Ewa a farne le spese), o più in generale starsene acquattato nell'invisibile. The Immigrant, di fatto assomiglia più al primo che al secondo. Anzi, assomiglia di più all'interprete del primo, un Joaquin Phoenix che continua a essere superbo (anche se qui fa poco più che affinare il suo già rodato repertorio): un quid opaco e nebuloso (ogni kolossal lo è) che di punto in bianco scoppia e con poca diplomazia butta sul tavolo tutte le carte, che non riesce più a tenere nascoste, facendo riguadagnare la superficie al sostrato melodrammatico. Lo zoccolo duro dei fans di Gray, forse, storceranno il naso davanti al suo relativo eclissarsi dietro (se non sotto) all'imponenza del progetto. È tuttavia Bruno stesso, e non a caso, a sacrificarsi affinché possa avere luogo lo Spettacolo: affinché, cioè, Ewa possa ricongiungersi con la sorella (trattenuta a Ellis Island al momento dello sbarco), l'immagine mancante sulla superficie dello Specchio.