TRAMA
“Cane Mangia Cane è la storia di tre uomini appena usciti di prigione che devono riadattarsi alla vita di tutti i giorni. Troy, la mente del gruppo, vorrebbe un’esistenza semplice, ma non riesce a liberarsi del suo odio per la legge e a stare lontano dal crimine; Diesel, sul libro paga della mafia, ha perso ogni interesse per la sua casa di periferia e per sua moglie; Mad Dog, il cane sciolto del trio, è un folle sanguinario. Ai tre capita l’occasione per il crimine perfetto, un ultimo colpo che potrebbe sistemarli per il resto della vita. Ci riusciranno? Sicuramente nessuno di loro vuole tornare in prigione, costi quel che costi…” (dal pressbook).
RECENSIONI
A circa tre quarti di Cane mangia cane, quando Diesel (Christopher Matthew Cook) e Mad Dog (Willem Dafoe) stanno per gettare il cadavere di Mike Brennan (Louis Perez) in una base militare abbandonata sulla costa, Mad Dog pronuncia questa frase vagamente surreale al socio nauseato dal degrado del luogo e terrorizzato dall'eventualità di prendere l'aids: "È una questione di scienza forense: quando una cosa marcisce diventa meno tossica per la salute, perché è strutturalmente concentrata sull'autodistruzione di se stessa". A mio avviso è questa la chiave interpretativa più sensata per godersi sfrenatamente il diciottesimo lungometraggio cinematografico di Paul Schrader (non teniamo conto di Dying of the Light poiché si tratta di film espropriato). Schrader lavora insomma su un organismo in decomposizione, il cinema, trattandolo con serafica disinvoltura e apocalittica nonchalance. La frase riportata, ovviamente, non compare nel romanzo di Edward Bunker ed è una delle tante alterazioni che la sceneggiatura di Matthew Wilder introduce in un adattamento non esattamente tra i più fedeli che la storia del cinema abbia registrato.
Eppure il punto è proprio questo: Schrader non gira un semplice crime movie, ma un film sui crime movies, vale a dire un film che s'interroga su come sia possibile girare un crime movie oggi, dopo le scosse sismiche apportate al genere da Scorsese, Tarantino e Guy Ritchie (sono questi i tre registi che Schrader ha menzionato quasi sempre nelle numerose interviste). Un organismo in putrefazione di cui si segue il processo di autodistruzione con macabra e incensurata euforia. La violenza stessa del processo diventa innocua ("meno tossica per la salute", direbbe Mad Dog), puro spettacolo autodistruttivo che non segue alcuna regola all'infuori di un destino già scritto, tanto per i personaggi messi in scena quanto per il medium che di quei personaggi è veicolo d'infezione e loculo sgargiante. L'istituzione cinematografica come entità unica si è irreparabilmente disintegrata: non ha soltanto perso la sua capacità di aggregazione, ma si è letteralmente sgretolata in una miriade di esperienze audiovisive che con la concezione tradizionale di cinema hanno davvero poco in comune. La consapevolezza di questa luminescente agonia post theatrical (come osservava Pacilio) era già enunciata compiutamente in The Canyons (uno dei film più belli e caustici sulla morte del cinema insieme a Goodbye Dragon Inn (2003) di Tsai Ming-liang e Holy Motors (2012) di Leos Carax).
Una consapevolezza teorica che si riversa per intero, seppur tramutata in ghignante sarabanda, in Dog Eat Dog: qui Schrader lavora sulla materia marcescente, gioca con forme in disfacimento assecondandone la consunzione inesorabile e imprevedibile al tempo stesso (se la fine è certa, l'evoluzione di questo decesso si apparenta all'entropia). Cavalieri del nulla o fantasmi noir, Troy (Nicolas Cage), Mad Dog e Diesel viaggiano sì spediti verso la propria sparizione, ma non in linea retta: zigzagano tra un presente allucinato, un passato criminale e un futuro fatale. A loro può capitare tutto e il contrario di tutto, ma la sostanza non cambia: sono destinati ad accopparsi tra loro (Diesel che fa saltare le cervella a Mad Dog), schiantarsi in una morte da samurai in superslow motion (il seppuku automobilistico di Diesel) o rivivere la loro dissoluzione in scenari virtualmente permutabili (Troy, l'uomo che morì almeno due volte). Lo spettacolo della morte si tinge di sbrigliata euforia. Non è dunque fortuito che, per girare Cane mangia cane, Schrader abbia messo insieme una troupe composta da quella che egli stesso ha chiamato "post-rules generation", giovani collaboratori che, formatisi nel quadro della tecnologia multimediale, ignorano geneticamente l'esistenza della grammatica filmica tradizionale. L'unica regola stabilita dallautore di American gigolò (1980), Mishima - Una vita in quattro capitoli (1985) e Cortesie per gli ospiti (1990), tre titoli che racchiudono gli anni '80 come altrettanti epitaffi, è stata questa: "non essere noiosi".
La ricaduta estetica di una consapevolezza simile si traduce nella constatazione del "collasso della nozione di stile unificato": alla concezione tradizionale della coerenza stilistica come cifra singolare di ogni film (riassumibile nella formula "ogni film ha il proprio stile") si è sostituita una sensibilità estetica cangiante e disomogenea. Eclettica. Così Schrader: "La lezione di base che ho appreso negli ultimi cinque anni è che la nozione di stile unificato sta collassando. Eravamo abituati a questa nozione che ogni film avesse il proprio stile particolare e ora, con queste sensibilità "multimedia multitasking", puoi mescolare e combinare a piacimento quello che vuoi nei film e gli spettatori non se ne preoccupano. Puoi girare una scena alla Cassavetes, metterla accanto a una scena alla Welles, a una scena alla NCIS, alla Godard o alla Béla Tarr: gli spettatori le processeranno tutte insieme. Sicché ogni cosa è in qualche modo possibile e ciò rende la situazione eccitante ma anche un po' caotica". Ridotta ai minimi termini (prologo, primo crimine, intervallo, secondo crimine, epilogo), la struttura narrativa di Dog Eat Dog rispecchia perfettamente questa commistione di eccitamento disomogeneo: le tonalità di registro variano in continuazione da una sequenza all'altra (ma non troppo spesso all'interno della stessa sequenza), saltando da un segmento girato alla Tarantino (il drogatissimo incipit tra proliferazione di multi-screen e pugnalate pulp) a una scena girata in un bianco e nero rétro con felpatissimi movimenti di camera e voce narrante in prima persona (atmosfere da noir filologico con flasback su ciascun personaggio a fare da schegge impazzite).
L'impressione complessiva è quella di trovarsi non tanto davanti a un film, quanto a un'ipotesi di film, come del resto la giostra di finali conferma esemplarmente: un finale vale laltro, dal momento che sono virtualmente sostituibili. Un gesto teorico, insomma, che sposta l'attenzione dal sintagma (la combinazione ordinata della progressione drammatica) al paradigma (il set di opzioni cinematografiche ipoteticamente concorrenziali tra loro). Ecco un finale alla Guy Ritchie con tanto di cazzotti ultrarallentati (Diesel che crepa e Troy nelle grinfie degli sbirri), sembra dirci Schrader. Ma al posto di questo finale potrebbe forse starci quest'altro (il pestaggio e la tortura inflitta a Troy dai poliziotti della volante). Anzi, forse quest'altro ancora, con corpuscoli lynchani e retrogusto alla Ida Lupino (sì, lo confesso, mi ha fatto pensare a The Hitch-Hiker), sarebbe addirittura meglio (il rapimento del reverendo Charles Wilson e signora con tanto di nebbiosa ecatombe). Ebbene, con un po' di spericolatezza, questo potenziamento paradigmatico mi pare equiparabile a quello praticato più di cinquant'anni prima da Godard in Questa è la mia vita (Vivre sa vie, 1962), altro film che faceva della riflessione metalinguistica la propria ragion d'essere, pur nascondendosi sotto la parvenza d'indagine sociologica. Là si trattava di prostituzione, qui di crimine, ma la posta in palio rimane la stessa: linguaggio e volontà. In Questa è la mia vita, Nanà (Anna Karina) diceva: "Volevo dire questa frase con un'idea precisa e non sapevo quale fosse la maniera migliore di esprimere quest'idea. O meglio, lo sapevo ma adesso non lo so più, mentre, appunto, dovrei saperlo". In Dog Eat Dog, Troy sentenzia post mortem: "Volevo tutto ciò che volevo, come ognuno di noi. Tutto il resto sono solo parole". Ma dopo la morte della volontà, persino la propria, è proprio il linguaggio che resta. THE END.