TRAMA
Dicembre 2000. Al giovane e spregiudicato aspirante agente dell’FBI Eric O’Neill viene assegnato un caso piuttosto particolare: deve sorvegliare la moralità del direttore della Divisione per la Sicurezza delle Informazioni. Il vecchio Robert Hanssen sembra difatti avere un debole per la pornografia, con una predilezione per le spogliarelliste e per la diffusione on-line di filmati erotici della moglie. Ma presto il giovane Eric viene a sapere la verità: Hanssen è fortemente sospettato di spionaggio, è lui “la breccia” nel sistema di sicurezza statunitense, l’uomo che per venti anni ha venduto informazioni top secret ai russi.
RECENSIONI
Che cosa spinge un agente dell’FBI a passare informazioni di massima segretezza ai nemici del proprio paese? Che cosa porta un uomo perfettamente integrato nei meccanismi di un’organizzazione statale a mettere a repentaglio la propria vita e i programmi di sicurezza nazionale? È bello che in Breach le motivazioni psicologiche della “breccia” Robert Hanssen – ex agente operativo di strategica importanza nelle relazioni con l’Unione Sovietica e posto a capo di una fantomatica Divisione per la Sicurezza delle Informazioni alle soglie del pensionamento – rimangano sottotraccia, non vengano sbandierate, strillate o peggio promosse a fulcro drammatico del film. Billy Ray, autore del ricevibile L’inventore di favole, si focalizza piuttosto sulle dinamiche psicologiche osservabili, ovvero quelle che si scatenano nello scontro tra lo scafato Hanssen (un Chris Cooper monumentale) e l’inesperto Eric O’Neill (Ryan Phillippe, perfettibile), giovane tirocinante reclutato per “spiare la spia”. I risvolti inaspettati non mancano: quella che a tutta prima sembra un’indagine un po’ bigotta sulle piccole perversioni sessuali di Hanssen si rivela invece un gigantesco apparato investigativo messo in piedi per inchiodare il traditore e condannarlo all’ergastolo. Giova a Breach (bisognerebbe fare una sassaiola a chi ha coniato il sottotitolo L’infiltrato) una messa in scena esemplarmente “economica”: astenendosi da svolazzi registici o espedienti sensazionalistici, il film si concentra con mirabile sobrietà sui due mesi in cui si svolge la vicenda (da metà dicembre 2000 a metà febbraio 2001), marcando stretti i due protagonisti del delicatissimo braccio di ferro. Ispirato a una storia vera (Robert Hanssen sta veramente scontando l’ergastolo ed Eric O’Neill figura come Special Consultant nei titoli di coda), Breach gioca a carte scoperte con i cliché del genere (il giovane ambizioso, la vecchia volpe, i superiori ambigui, la moglie ficcanaso) senza tuttavia dimenticarsi il senso del cinema: non solo montaggi alternati serrati come lacci al collo (per una volta l’aggettivo “classico” ritrova la sua ragion d’essere) e sguardi che dardeggiano sottintesi, ma soprattutto una sorvegliatissima costruzione in trompe l’œil (la Divisione per la Sicurezza delle Informazioni è a tutti gli effetti un set) che graffia sottopelle la credulità dello spettatore, lacerandone le certezze e rilanciando il principio dell’inganno sul piano della sua visione. Perché, sia chiaro, è il gusto dolce e proibito dell’inganno il motore delle azioni di Hanssen. E di quell'insostituibile dispositivo che funziona a 24 fotogrammi al secondo.
PS- Considerazione marginale: questo film è il controtipo negativo - quindi positivo - dell'oscenamente sopravvalutato Le vite degli altri. Descrive molto di più e molto meglio il rapporto che si crea tra sorvegliante e sorvegliato (in tutte le sue sfaccettature nascoste), ma dal momento che la scrittura filmica delle tensioni psicologiche rifugge dagli psicologismi Breach non riscuoterà altrettanto successo.