Drammatico

BLEED

TRAMA

Vinny Pazienza è un pugile italoamericano famoso per le sue straordinarie vittorie. Nel pieno della sua carriera rimane vittima di un terribile incidente automobilistico a causa del quale rischia di perdere l’uso delle gambe. Sarà la sua testardaggine a rimetterlo in piedi.

RECENSIONI

Il corpo di Miles Teller non riesce proprio a trovare pace. Sudato, sanguinante e sofferente in Whiplash, snodabile e allungabile a dismisura in Fantastic 4, sequestrato, scaraventato nel bagagliaio di una macchina e preso a calci perfino in una commedia piuttosto anonima come Trafficanti, e ora ancora più sudato, ancora più sanguinante e ancora più sofferente in Bleed.
Sorvolando sul supereroismo fantascientifico del secondo e sulla marginalità del terzo, nel parlare di Bleed forse è proprio con il film di Chazelle che ha senso forzare un po’ il confronto: siamo pur sempre di fronte a due storie di sogni e determinazione, di tentativi di realizzare i propri obiettivi, ma soprattutto di sacrificio e sconvolgente sforzo fisico. Al centro di tutto sempre lui, il corpo. Un corpo che si sgretola e si decompone pur di muoversi perfettamente a tempo, un corpo che assume i connotati di una fastidiosa e dolorosa gabbia che oppone resistenza alla propria incrollabile volontà, un corpo che deve perdere peso e poi guadagnarlo con l’allenamento, un corpo che viene preso a pugni sul ring, un corpo che, in entrambi i casi, ad un certo punto è vittima di un incidente automobilistico (e vittima di un grave incidente d’auto che gli ha lasciato numerose cicatrici sul volto e sul collo, Miles Teller lo è stato per davvero, nel 2007: ancora, il suo corpo non riesce proprio a trovare pace). Se però in Whiplash tale incidente non portava con sé pesanti conseguenze sul piano narrativo (si tratterebbe semmai di un evento volto a ribadire l’importanza del tempo, in tutte le sue declinazioni, nel racconto), in Bleed, che narra della vera storia del pugile italoamericano Vinny Pazienza, è chiaramente centrale. In seguito a quella drammatica fatalità, Paz si ritroverà infatti con il collo spezzato e una brillante carriera apparentemente stroncata al suo apice, proprio quando la sua determinazione gli aveva appena fatto conquistare la tanto ambita cintura di campione del mondo. I dottori sono convinti: non solo non potrà più tornare sul ring, ma c’è perfino il rischio che rimanga paralizzato a vita. C’è il rischio insomma, che il suo insaziabile desiderio di sfida e di vittoria non trovi più un corpo attraverso cui potersi esprimere. E che si sia un aspirante batterista (il più prettamente fisico dei ruoli di una band) o un pugile desideroso di affermarsi e riscattarsi, il corpo è qualcosa con cui dover fare necessariamente e costantemente i conti.

Affermazione e riscatto, si è detto. Ampliando momentaneamente lo spettro d’indagine e volendo dichiaratamente semplificare le cose, i film sulla boxe si possono suddividere in due categorie: affermazione (storie di perfetti sconosciuti a cui viene data un’occasione di diventare qualcuno, sul modello, ad esempio, del primo Rocky) e rinascita (storie di pugili affermati che, sbattuti a terra da scelte sbagliate o da tragici avvenimenti, compiono immensi sacrifici per ritornare sulla cresta dell’onda: giusto per citarne un paio, Rocky III o il recente Southpaw). Bleed, è evidente, non solo appartiene decisamente a questa seconda categoria, ma la esaspera: la rinascita di Vinny Pazienza assume infatti tutti i connotati di una vera e propria resurrezione (“I’m getting pretty sick of people talking about me like I’m dead” dice Paz al suo allenatore durante la convalescenza), resa possibile grazie ad un’inquietante e ingombrante struttura metallica inchiodata al cranio chiamata emblematicamente halo, aureola. Il sacrificio di Vinny e le sue trasgressioni ai consigli dei medici sono allora volti a riprendere il pieno possesso del proprio corpo, a riottenere il diritto di scegliere dove e in che modo farlo soffrire. In questo almeno, l’anonimo, standardizzato (e comunque orribile) sottotitolo italiano (-più forte del destino) non sbaglia: Paz è disposto a tutto, perfino a morire, ma vuole farlo sul ring (“bottom line is that I’m willing to die in that ring tomorrow night; I don’t think he’s ready to make that sacrifice”); non di certo a causa di una fatalità che con la boxe non ha nulla a che vedere. Il sangue del titolo (più incisivo quello originale, Bleed for This) non è allora quello perso sul ring (tutto sommato ce n’è poco negli incontri di Bleed), bensì il sangue dell’operazione chirurgica, dei chiodi che trafiggono il cranio del protagonista, o ancora, in senso lato, la sofferenza richiesta per risorgere dal mondo dei morti. Insomma, il sangue di Bleed non è quello del ring, ma quello, vero e figurato, necessario a tornare sul ring. Ed è su questo processo che la regia di Younger si sofferma maggiormente: più che sull’azione degli incontri (raramente la macchina da presa entra nel ring e si avvicina ai volti dei combattenti), l’enfasi è posta tutta sull’attrezzo medievale che tiene saldo il collo di Vinny e sullo sforzo fisico di un allenamento atipico, che non mira in prima battuta al miglioramento atletico del corpo bensì a riacquistare nuovamente le nozioni di base, a riprendere la piena consapevolezza di sé: bisogna ripartire insomma, dal bilanciere vuoto. Una variazione sul tema minimale, certo, e peraltro in un film che, come detto poc’anzi, appartiene pienamente ad uno dei filoni più ricchi e sfruttati del sottogenere tematico dei film di boxe, ma tanto basta ad imprimere al racconto un discreto interesse. Dopotutto è difficile resistere al fascino di un evento passato alla storia come “the greatest comeback in boxing history”.