
TRAMA
Evelyn Quan Wang è un’immigrata cinese trapiantata negli Stati Uniti che gestisce una lavanderia a gettoni insieme al marito Waymond. La tensione familiare è alta: la lavanderia a gettoni è tenuta sotto controllo dall’IRS, Waymond sta cercando di presentare le carte di divorzio a Evelyn, l’esigente padre di Evelyn è appena arrivato da Hong Kong e la figlia lesbica di Evelyn, Joy, cerca di convincere la madre ad accettare la sua ragazza Becky.
Vincitore di sette premi Oscar: film, regia, sceneggiatura originale, montaggio, attrice protagonista (Michelle Yeoh), attrice non protagonista (Jamie Lee Curtis), attore non protagonista (Ke Huy Quan)
RECENSIONI
ACROSS THE MULTIVERSE
Nessuno si lamenterebbe della presenza dei match di boxe in un Rocky a scelta o di quella dei cavalli al galoppo in un western, però ci si lamenta del convulso proliferare di itinerari narrativi di Everything Everywhere All At Once (d’ora in poi EEAAO) dimenticando che, prima che una scelta di metodo, quella dei Daniels è una scelta di sostanza: il multiverso non è un pretesto o una pura ambientazione, è il nucleo del discorso, di questo tratta il film, a meno che non si voglia prendere sul serio il primo logline diffuso dai registi «Il film su una cinquantacinquenne che cerca di pagare le tasse». Ricomincio: ci lamenteremmo dei troppi spari di un film di gangster o dei troppi baci di una commedia romantica? Uccidete paranoia, il cinema sopravviverà anche stavolta, non saranno certo i Daniels a dargli il colpo di grazia con una produzione A24 del 2022, per quanto quella di maggior successo da quando il marchio esiste. E a proposito: che un film che molti trovano lungo ed estenuante (ma che magari si sciroppano mattonate d’autore - non è un giudizio - come fossero acqua fresca) e si impressionano per i giochi dei Daniels tanto da piangere sulla fine del cinema che neanche Scorsese con gli Avengers, che un film che molti trovano lungo ed estenuante, dico, sia un successo di pubblico vero, non drogato, perché nutrito dal passaparola e da commenti sui social del tipo I laughed, I cried and I laughed again, è un fatto rilevante, ancor più in un’epoca di crisi delle sale, ancor più negli Stati Uniti che non sono certo abituati ai sottotitoli (perché, come se non bastasse, è anche bilingue). E non voglio parlare degli Oscar (anche se dovrei, perché è importante, ma il discorso, lo vedete è già molto lungo) La verità è che il pubblico - che non ragiona per categorie precostituite e partiti presi, che vuole godersi un’esperienza senza l’urgenza di filosofeggiarci su - può intuire le cose prima di una cinefilia o una critica appesantita dalle sue imbracature teoriche, accecata dai suoi preconcetti e dai suoi obblighi social, frenata dai suoi tatticismi (cosa mi conviene dire? Dove mi posiziono? Cosa potrebbe incrinare la mia autorevolezza? Cosa attenta all’idea che ho del cinema fin da quando ero bambino?): il pubblico, si siede, guarda, apprezza o respinge credendoci e basta, senza sovrastrutture e senza fare di quella visione una questione di vita o di morte (del cinema), senza l’urgenza di emettere sentenze o profezie catastrofiche (che non si verificano mai: tanto chi ci ritorna su?) eccetera eccetera [1]. Avrei da citare un sacco di artisti e di titoli di opere recenti (non solo cinematografiche) che il pubblico ha apprezzato con anticipo di anni rispetto a una critica che arriva con l’ultimo treno e che, scesa dal predellino, si confonde nella folla sperando di non essere notata.
What If...
Il primo dato di EEAAO che mi è saltato agli occhi - conoscendo il duo di registi da anni (gli ho dedicato un capitolo monografico sul volume che ho scritto sul videoclip, e che data ormai 2014) - è che si pone perfettamente in linea con un’opera che, al di là delle forme usate e dei generi esperiti, ha una spiccata tendenza esistenzialista. Cos’era, al di là delle apparenze, Swiss Army Man se non una storia di emarginazione, di un rapporto conflittuale col padre (e conseguente non accettazione), di un’identità (non solo sessuale) in discussione, di un isolamento divenuto patologico (l’uso ossessivo e l’abuso onanistico di tv, cinema, rete)? C’era un uomo al centro della storia (Hanks, e il suo doppio Manny, ovvero man): la sua deriva allucinatoria metteva in scena un dramma intimo, ne faceva favola demenziale che intercettava e rimetteva in circolo in forme visionarie quel mondo pop in cui il protagonista si perdeva (si veda anche Under The Silver Lake di David Robert Mitchell). Non è diverso quest’ultimo: percorri il multiverso (ovvero il disturbo delirante) e ti ritrovi in un classico family play che parla di una donna in crisi col marito, di una figlia lesbica che la madre non accetta, del Gong Gong (il nonno) a cui nascondere questa onta, di un’impresa familiare in difficoltà, di un nucleo al disfacimento. Il what if che apre tanti itinerari esistenziali (e altrettanti generi cinematografici - dalla science fiction alla Matrix, alla love story d’autore quasi Wong Kar-wai, dalle arti marziali alla commedia eccetera -) è il modo usato da due registi nerd (e quindi coltissimi) per raccontare dolori, frustrazioni, sogni e bisogni in conflitto dei membri di questa famiglia. Il multiverso serve, insomma, a sostituire con armi mirabolanti le parole velenose, a fare della dialettica esasperante un’effettiva sfida all’ultimo sangue, a esercire il wuxiapian al posto del jeu au massacre, a dare forme mostruose o paradossali alle tensioni in atto (la classica recriminazione «se non ti avessi sposato, oggi sarei più felice» diventa un subplot messo in scena, un lucido e puntuale rinfaccio con tanto di narrazione dettagliata). Il tutto per tornare sempre al punto dolente: le care, vecchie, umanissime questioni disciolte in una quotidianità prosaica e tutt’altro che “fantastica”.
Nothing Matters
Allora, se il finale di Swiss Army Man rivela l’isola sperduta del protagonista come un pezzo di natura ai margini della città, un bivacco fatto di rifiuti e ciarpame, perdendo, allo sguardo obiettivo, ogni fascino e magia, allo stesso modo qui - al di là dei miraggi multiversali di Evelyn (ché tali sono) - ci si ritrova nello squallidissimo contesto di un ufficio delle imposte a parlare di magagne fiscali con l’impiegata Deirdre Beaubeirdra. Da un lato la realtà per come si è determinata, dall’altra il multiverso - ovvero il Rimpianto Strutturato, La Recriminazione Matematica -, tutte le scelte possibili, tutte le loro varianti, tutte le ipotesi di vita che potevano concretizzarsi e che sono state neutralizzate dalla scelta esperita. Evelyn, nello specifico, si mette in contatto con Alphaverse, un universo nel quale la sua alphaversione (defunta) ha creato una tecnologia che consente alle persone di accedere ai talenti, ai ricordi e ai corpi delle loro controparti dei vari universi paralleli, attraverso un’auricolare che si attiva ponendo in essere comportamenti improbabili e insensati. Eccoli i Daniels: che nel discorso serissimo di fondo (famiglia di immigrati lotta con le difficoltà della vita, materiali e non), non solo fanno distendere il genere, ma arrivano sempre ad esasperarlo, a fargli toccare l’estremo assurdo, sgradevole, repellente e (dunque) irresistibile (i peti del morto di Swiss Army Men, per esempio; qui il premio di Deirdre visto come un dildo da ficcarsi in culo come atto insensato per far innescare il salto di universo).
E in questa situazione il tasto dolente - da sempre il cuore (anche politico) del discorso dei Daniels - è la questione dell’identità (sessuale, in primis), qui trasfigurata in Jobu Tupaki, la versione della figlia Joy nell’Alphaverse; una minaccia (Jobu può manipolare la materia e gli universi e ha creato un buco nero a forma di bagel in grado di distruggere il multiverso) che solo Evelyn può contrastare. Perché? Perché essendo la peggiore versione di Evelyn in tutti gli universi, è quella che ha il massimo potenziale di miglioramento. Chiaro? Traduciamolo dal fantascientifico al realistico: Evelyn non solo si sente una donna (moglie, madre) fallita, ma vede nell’omosessualità di Joy una minaccia all’ordine familiare (il giudizio del padre - che è il giudizio di una cultura originaria -, col quale non smette di confrontarsi); la ragazza è, insomma, un problema prima che una figlia che chiede di essere capita. E Joy per questo, esasperata dalla situazione, ha pensieri nichilisti e di fuga (riportandolo in termini sci-fi: Jobu Tupaki pensa che la moltitudine di universi e il conseguente caos non abbiano senso e vorrebbe solo che non esistessero).
Nothing matters.
La teoria dei multiversi, il pensarsi altrove in un'altra dimensione possibile, il prendere in considerazione altre versioni della propria esistenza (se avessi fatto, se avessi detto, se quel giorno non… eccetera) nascono da un senso di sconfitta esistenziale (la richiesta di divorzio), dalla difficoltà economica (l’indagine fiscale) e dall’incomprensione (l’omosessualità della figlia, una realtà che la donna continua a contrastare; non è un caso che nell’Alphaverse le si ricordi: «Tu hai creato Jobu Tupaki»). E mentre nei vari altri universi accade di tutto (tutto, ovunque e nello stesso tempo, anche la relazione lesbica - indovina perché - tra Evelyn e Deirdre - siamo in un mondo dove al posto delle dita si hanno delle molli appendici -), la protagonista nell’Alphaverse arriva a comprendere le ragioni di Jobu Tupaki e a cessare le ostilità. Tradotto: Evelyn, di fronte alla prospettiva di perdere Joy, comprende cosa è davvero importante e cambia atteggiamento, presentandone al padre la compagna e rompendo lo schema familiare del giudizio che lei ha subito da Gong Gong e che essa stessa ha rivolto alla figlia. Di più: si riconcilia col marito Waymond e sana la questione fiscale con Deirdre che ha compreso il momento critico della donna e, dopo un momento di reciproche confessioni, le concede ancora tempo per rimediare.
Nothing matters (ma in altro verso).
Qui cito Lynch e Kubrick
(ma nonostante ciò le vostre vite non cambieranno)
Ancora una volta i Daniels danno vita a un fuoco d’artificio narrativo usando la strada fantastica in chiave metaforica (lo fanno da sempre: nei videoclip, nei cortometraggi, persino nei commercial). A esplodere non è la narrazione, è il cervello di Evelyn sfiancata da mille sollecitazioni, economiche e familiari, una donna che, voltate le spalle al padre, ha lasciato la Cina per trovare fortuna a Los Angeles e che ha messo da parte ogni ambizione per ritrovarsi in una vita che non le piace (il flashback che riassume la sua esistenza è la prima visione che ha). Quello di Evelyn è dunque un delirio patologico derivato da un burnout: così, nell’ascensore, un attimo prima che si manifesti il multiverso, la donna esclama: «Se mi metto a pensare a qualcos’altro la mia testa finirà per esplodere!». Ed è allora che, per l’appunto, la cosa accade: la protagonista casca nel vaneggiamento farneticante. Non è un caso allora, che, nella teoria di mondi, prenda vita Raccaccoonie: il modo erroneo con cui Evelyn pronuncia Ratatouille ne concretizza l’immagine mentale, quella di un cuoco con un procione (raccoon). Tutto sta avvenendo nella sua testa e il suo cervello alterato processa elementi attinti dalla dimensione reale.
Esempi? I googly eyes li vediamo all’inizio, attaccati all’oblò di una lavatrice e poi nella casa di Evelyn che si lamenta di rinvenirli dappertutto (sono una fissazione di Waymond): li ritroveremo sulle pietre che dialogano (uno fa anche da terzo occhio di Evelyn); l’auricolare, che nell’alphaverse è il mezzo per compiere il salto in un’altra dimensione, entra in scena all'inizio, all’orecchio della cliente della lavanderia col cane (foto in alto), la stessa cliente che, in tutt’altra veste, ritroveremo come antagonista nella battaglia alphaversica; il filone indiano è una proiezione distorta del film che si vede dallo schermo della lavanderia e che Evelyn, per un attimo, guarda incantata. Eccetera eccetera. Soprattutto: il cerchio sul documento, segnato a penna da Deirdre, diventa, nella dimensione paranoica, il bagel-buco nero che risucchia tutto. C’è qualcosa di tremendamente lynchiano in queste riletture alterate (fino al visionario) di elementi reali (rivedersi il finale di Swiss Army Man, ché la logica è uguale). Ha proprio ragione Stanley Kubrick: «È assurdo vedere un film una volta sola e poi scriverne la recensione» [2].
Qui cito Ionesco
(ma nonostante ciò un bagel non ci inghiottirà)
In EEAAO l’obiettivo dei Daniels è ricreare un caos mentale, utilizzando e citando generi e teorie (Michelle Yeoh, prima che - sublime - interprete, è il concentrato, la quintessenza del cinema di Hong Kong), restando però attaccati al dato concreto e indiscutibile dell’umanità (in questo c’è Gondry. E Kaufman. E Resnais alla radice). Quindi sono i personaggi, il loro vissuto, i loro piccoli grandi drammi, il tragico dubbio che li nutre dell’inutilità del Tutto, questo primo grado - insomma, la Realtà - a costituire la base e il fondamento di tutte le variazioni. Che nascono come proiezioni della prima e come sue relative chiavi di lettura. Come tutta l’opera dei Daniels, anche questo film (forse più che mai) mi fa pensare a Ionesco: prospettiva metafisica, assurdità coerente, parodia burlesca di una realtà tragica, simbolismo puntuale e labirinti temporali per tradurre l’angoscia dell’uomo e il suo complicato rapporto con il mondo.
Ora, può non piacere tutto ciò, ma non ha assolutamente nulla di gratuito, anzi. EEAAO è ossessivo ed estenuante, si dice, non potendo (non volendo!) essere altrimenti, dico io. Aggiungerei che ti esaspera nello stesso modo in cui The Father di Florian Zeller (sì, avete letto bene) ti confonde: poiché entrambi rispecchiano la condizione dei loro protagonisti, restituendone la dimensione sensoriale. I Daniels ti fanno entrare nella testa di Evelyn e ti ci fanno rimanere per un paio d’ore. E lì dentro si sta vivendo un inferno: potrai anche ridere, ma non sarà una passeggiata, preparati. Un film esperienziale, e coraggioso perché non media, non tenta di smussare gli angoli, non si fa intimidire dal malessere: usa i generi per dirti della scissione interiore di Evelyn e le dà voce in pieno, anche a costo di logorare o di allontanare lo spettatore. Questa è la cosa del film che mi impressiona di più, come non scenda mai a patti con l’inventiva e l’originalità delle sue trovate: EEAAO non riconosce loro un primato perché non dimentica mai a cosa quel discorso mirabolante sta mirando, non baratta la dimensione umana e la questione esistenziale con lo spettacolo, ma assoggetta quest’ultimo alle prime, perché come sempre nei Daniels, sono esse il fondamento dell’opera. Un film che lascia un segno (a forma di bagel?) e col quale continueremo a confrontarci per un bel po’. Non solo uno dei titoli chiave della stagione, allora, ma quello di cui domani parleremo ancora, a dispetto di altri che vediamo ai festival, che ottengono premi, stima e 10 in pagella e che l’anno (il mese?) dopo sono già rimossi e nessuno cita manco per sbaglio.
Chiusura realistica, #cista.
[1] Nota a posteriori: questo è il tweet di Daniel Kwan alla vigilia della notte degli Oscar
[
[2] Da Il regista cinematografico come superstar: Stanley Kubrick di Joseph Gelmis (1970). La trovate nella raccolta di interviste Non ho risposte semplici della Minimum Fax, a cura di Gena D. Phillips.
