TRAMA
Il Wakanda, nazione dell’Africa centro-Orientale, si nasconde agli occhi del mondo. In apparenza Paese povero di risorse e speranze, nei fatti il più tecnologicamente avanzato del mondo, grazie alla presenza del vibranio, minerale alieno dalle inimmaginabili potenzialità. Quando T’challa sale sul trono, divenendo così la nuova Pantera Nera che protegge il proprio popolo, intende preservare la tradizione, ma un ritorno inatteso a Wakanda lo obbligherà a rivedere i propri piani.
RECENSIONI
Eccolo dunque, il primo standalone su un black superhero del Marvel Cinematic Universe. Un film il cui valore politico non si riduce certo alle innocue (seppur inedite in casa MCU) frecciatine lanciate contro Trump nella tradizionale scena durante i titoli di coda e neppure alle metafore più o meno velate sparse nel racconto. No, il gesto politico più forte e deciso di Black Panther sta nella sua stessa esistenza. Dopo anni di studi e proteste sulla whiteness dei cinecomics infatti, ecco il film che, per dirla con Spike Lee, «ha cambiato tutto» (IndieWire). Ed è vero: i tempi sono cambiati, o perlomeno stanno cambiando, nel nome della pluralità di sguardi e dell'integrazione dei soggetti che storicamente, in tale genere, sono stati poco o per nulla rappresentati. Certo, si tratta di cambiamenti che in qualche modo confermano e rilanciano un'insoddisfazione già molto forte in America (per restare nel nostro campo, basti pensare all'eco della polemica #OscarsSoWhite) che adesso ha trovato proprio in Trump un nemico comune in grado di accelerare la protesta e di unire e ampliare le voci del dissenso. Ora, sappiamo quanto un certo tipo di cinema popolare (di cui i cinecomics oggi sono di certo l'espressione più forte e diffusa) sia estremamente efficace per misurare lo stato delle cose. In tal senso, la Disney è certamente capace di leggere e pianificare la contemporaneità meglio di chiunque altro e per questo, dopo aver atteso (forse perfino troppo) il momento più propizio, è entrata in azione, contribuendo al movimento con una forza dirompente. È evidente, Black Panther è per la Marvel e per la cultura nera ciò che Wonder Woman è stato per la DC e per la rappresentazione femminile nei cinecomics. Il successo economico di entrambe le operazioni (oltre 800 milioni di incasso worldwide e una valanga di record infranti per il film di Patty Jenkins; più di 1 miliardo e 300 milioni per il film di casa Marvel, nono miglior incasso della storia del cinema) sta lì a dimostrare quanto li si stava aspettando.
Nonostante l'indiscutibile importanza di questi punti, sarebbe però piuttosto limitante (come sempre) ingabbiare il film solamente in questa dimensione socio-politica. Black Panther è infatti molto interessante all'interno dell'universo Marvel perché in esso pulsa una filosofia decisamente personale esaltata da una regia controllata, ma sempre in tono. Ryan Coogler (Prossima fermata Fruitvale Station e Creed - Nato per combattere) è bravo a valorizzare la dimensione ancestrale del racconto, il Wakanda come spazio completamente nuovo (per vegetazione, illuminazione, ambienti interni ed esterni) nel Marvel Cinematic Universe, ma anche i diversi registri narrativi entro cui il film si muove e i drammi messi in campo da una origin story abbastanza atipica per svolgimento e relazioni tra i personaggi. Il supereroe qui non diventa tale a causa di una mutazione del corpo o grazie alla sua smisurata ricchezza, ma assume un ruolo regale naturalmente, per via dinastica. Siamo insomma, più dalle parti di Thor che di Captain America o Iron Man, seppur completamente spogliato di tutta la componente comica che nella saga del dio del tuono è ormai prevalente. Tale pretesto dona al film una dimensione tragica (nel senso più teatrale e shakespeariano del termine) per molti versi estranea all'MCU, che Coogler sa cavalcare molto bene, tra coreografie ritualistiche e battaglie campali in ambienti extraurbani. Tuttavia, ed è questo uno dei meriti più grandi dell'operazione, ciò non toglie peso all'altra anima del film, quella più cinefila e genuinamente divertente, composta da un arsenale spionistico che farebbe impallidire perfino James Bond, da scazzottate al casinò e da frenetici inseguimenti automobilistici in Corea del Sud. Due registri che convivono in perfetta armonia, valorizzandosi l'un l'altro: perfino il tema musicale di Ludwig Göransson, tutt'altro che memorabile, sa alternare momenti in pieno stile Avengers ad altri in cui tocca corde solenni abbastanza inedite, che però ben si sposano con i toni del racconto.
Di padri e figli, di colpe dei padri che ricadono sui figli, di lotte tra cugini per la successione al trono, di un passato irrisolto che ritorna, di scelte amministrative in grado di cambiare le sorti degli oppressi di tutto il mondo: anche se celata sotto la collaudata e accattivante forma dell'universo Marvel, la questione è serissima in Black Panther. Restare al sicuro nell'ombra (nessuno sa dell'esistenza dell'ipertecnologico e futuristico Wakanda) o esporsi e usare le proprie risorse per aiutare le popolazioni in difficoltà? «We let the fear of our discovery stop us from doing what is right», dice T'Challa al padre defunto. La paura di essere scoperti dunque, di dover rinunciare ai privilegi dati da uno stile di vita sereno ed egoistico al fine di aiutare chi combatte per una condizione di vita migliore. Ciò che il film mette apertamente in campo è proprio questa lotta tra una politica di estremo e sicuro isolazionismo e una di apertura al fratello bisognoso, vicino e lontano.
Una lotta tra muri e ponti insomma, per dirla in altri termini, tristemente contemporanei.