TRAMA
Olanda, 1944. Rachel, una giovane ebrea, nel tentativo di fuggire con la propria famiglia verso i territori liberati, incappa in una pattuglia tedesca: è l’unica superstite della strage che segue. Stabiliti i contatti con la resistenza olandese, diventerà una spia.
RECENSIONI
Avvincente rilettura dello splendido noir bellico di Jean-Pierre Melville L’armée des ombres (L’armata degli eroi, 1969), Black Book è un film in esemplare equilibrio tra dolorosa riflessione morale e crepitante spettacolarità, tra senso e insensatezza del sacrificio, tra fiducia negli ideali e fede nella sopravvivenza. Paul Verhoeven mostra di aver assimilato perfettamente la filosofia del cineasta francese e fa un film più melvilliano di Melville, incardinando il racconto sul principio dell’ambiguità: il tradimento - molto più dell’amore, della libertà e dell’eroismo – è l’autentico motore narrativo di Black Book. Magnifica intuizione quella di circondare Rachel/Ellis (Clarice van Houten in una prova che surclassa letteralmente tutte le Scarlett Johansson in circolazione) di personaggi falsi e cinici che amplificano per antitesi la sua integrità. Lei, disposta ad andare fino in fondo per aiutare la Resistenza, vomita i suoi sentimenti e gorgheggia Ich Bin Die Fesche Lola accompagnata al piano dal tenente nazista che le ha sterminato la famiglia. Lei, ciecamente fiduciosa nella causa, non esita un istante a infiltrarsi nel quartier generale nazista e a piazzare microfoni con formidabile sangue freddo. Lei, vestita da sera per la festa di compleanno del Führer, scende nella carbonaia per spianare la strada all’incursione dei suoi compagni, sporcandosi i piedi e sciacquandoli rapidamente nel water. Tutt’intorno imperversa la corruzione e la delazione, la rapina e il massacro, l’astuzia e l’avidità: soltanto la relazione paradossale col capitano Ludwig Müntze (l’ottimo Sebastian Koch), anch’egli solo e sconfitto, le concede una boccata d’ossigeno, prontamente castigata con una pioggia di liquame somministratale dai nuovi aguzzini (cambiano le uniformi, il sadismo è il solito). Non è dato essere felici in tempo di guerra (quindi sempre): la gioia, anche quando pare spensierata e superficiale (si veda il personaggio di Ronnie, la puttana allegra, magnificamente interpretata da Halina Rejin), è intessuta di paura. L’angoscia serpeggia, avvolge i colli ingioiellati, si infila sotto le lenzuola, si insinua tra i cavilli burocratici dei regolamenti militari e, linguaggio universale della crudeltà, crivella spietatamente i corpi. Un film di sfarzosa, appassionante amarezza.

Il cinema di Verhoeven è sempre stato estremamente chiaro ed esplicito, forse fin troppo diretto per essere colto e apprezzato senza fraintendimenti. Verhoeven va dritto all’obiettivo, senza ipocrisie e giri di parole; il “tema” è l’omosessualità? Paul non si fa problemi a inserire, in tempi non sospetti (Spetters, 1979), erezioni e fellatio omo assolutamente autentiche, candidamente porno. Hollywood gli chiede un film-scandalo? Lui fa di tutto per accontentarla e ci riesce perfettamente, a costo di sporcarsi le mani (in entrambe le direzioni: Basic Instinct è ben poco hard rispetto ai suoi citati standard olandesi ma lo è fin troppo per quelli americani). In Black Book racconta così una straight story d’altri tempi, d’avventura, guerra, amore e spie, e lo fa in modo classico e lineare, sospeso nella sua solita terra di nessuno equivicina alla megaproduzione come al low-budget paratelevisivo, a metà strada tra una presunta serietà “storica” e una sua rilettura criptoironica e semplificata (tra La caduta degli dei e Salon Kitty?). Fatto sta che il film, qualunque cosa sia, con tutti i suoi limiti, funziona. Non mancano infatti personaggi mal rifiniti, gli eccessi mélo e le forzature narrative ma Black Book sa anche avvincere il pubblico con un senso dello spettacolo quasi ingenuo, consapevolmente fuori dal tempo, fatto di novelle Mata Hari, doppiogiochisti e microspie. Non solo: al contempo si rivela film moderno e spesso sorprendente nel trattare lo “sfondo nazista” come un vero “sfondo” per le vicende umane, finalmente smitizzato e de-ideologizzato, e nell’inserire dettagli (visivi e non) inopinatamente forti e apparentemente estranei al contesto. Immancabili le polemiche, fiore all’occhiello del Nostro, che vive ormai nel terrore di non essere frainteso: è stato misogino, perverso, superficiale, fascista, nazista e oggi si scopre pure “revisionista”. Ma non è colpa sua se esiste l’imbecillità.

Verhoeven ha abbandonato i lidi hollywoodiani che lo videro scaltrire il proprio mestiere, ma annacquare in uno standard più o meno riuscito la capacità di raccontare in forme singolari e non edulcorate la violenza che intride le relazioni umane (perfino quelle erotiche) e la sua potenza rivelatrice; nella natia Olanda ha girato un film d'avventura bellica come se ne facevano venticinque o trent'anni fa, prima che la moda di attentare a ogni costo riflessioni metalinguistiche sul genere e di complicare fino alla noia le nuance psicologiche disseccassero, anche in autori promettenti, la vena d'un vigoroso intrattenimento popolare. Abbiamo dunque, con Blackbook, un ritmo instancabile (il film è rapidissimo, ancorché di durata non esigua), una tensione crescente (l'avvitarsi del dramma è da manuale), passioni nette e sommariamente squadrate, colpi di scena dosati con sagacia, un dilemma etico di sicura presa esposto senza fronzoli o contorcimenti. Tutto quanto viene sacrificato in sottigliezza – qualità alla quale il regista non è mai stato troppo interessato – e talora in verosimiglianza, è recuperato sul terreno della tenuta spettacolare. A essa l'autore unisce l'antica passione per la fisicità (per contro latente o rimossa nel cinema che gli fa da modello): non soltanto il nudo, femminile e maschile, esposto fulmineamente e senza insistenze sospette (quanto potrebbe imparare un Autore come Bertolucci, da un artigiano come Verhoeven!), ma anche il sangue rappreso o zampillante, le cicatrici, le ferite ancora aperte, il vomito, l'urina, le feci; tutto quanto dice della nostra corporeità, dell'esposta materialità del nostro essere, e trova adeguato e bruciante pendant nell'inquadratura del cadavere d'una donna alla quale vengono spalancate le gambe per strapparle il denaro nascosto nella biancheria intima. Si avverte più ferocia in questo frame che in tante sofisticate e pretenziose costruzioni narrative.
Il film si presta pure a una considerazione d'altro tipo; quando ancora non si celebravano i giorni della memoria e non ci si sentiva in dovere di pronunciare monotone litanie sul Male Assoluto che travolse l'innocente e civilizzata Europa, la narrativa popolare (intendendo anche quella cinematografica) sapeva bene che in quegli anni l'antisemitismo non era fiorito dal nulla, e che molti avevano collaborato coi nazisti nelle pastoie burocratiche o vendendo gli ebrei ai persecutori o tradendo i combattenti della resistenza. Difatti, libri e film erano pieni di collaborazionisti, spie, parassiti, venduti, doppiogiochisti, ricattati, vendicatori, servili. Spesso maschere elementari, ma a volte sufficientemente elaborati da sfuggire al luogo comune; in ogni caso, tali da marcare uno spazio d'ambiguità morale nella coscienza dell'Occidente liberato dall'incubo.
Ancora nel 1988, Un Affare di Donne dipingeva con drastica durezza una società piccoloborghese che col nazismo era scesa a convenienti patti, quando non ne era stata il malefico utero. Ma nel corso degli anni la retorica pedagogica (affatto diversa dalla ricerca storiografica), sfociata infine nell'istituzionalizzazione del memorial day, ha via via dissociato il Male dalla Storia, trasformandolo in un'entità mitica o comunque metastorica che d'improvviso s'abbatte sui destini degli umani (come i colpi di fucile che piovono casualmente dall'alto in Schindler's List); il rito della memoria ha acquisito un sapore moralistico; quello che un tempo comunemente si vedeva sugli schermi e si leggeva nei libri, oggi è fonte di piccoli scandali, cioè degli unici scandali di cui sia capace una comunità che fagocita tutto alla velocità del lampo. Con passo rapido Verhoeven mostra un'ebrea che s'innamora d'un nazista (il quale per colmo di ventura non è un automa pazzoide), un olandese che per avidità vende gli ebrei e i suoi stessi compagni al nemico, un gruppo di patrioti fra i quali l'antisemitismo è radicato ed esibito senza remore, i vincitori che infieriscono crudelmente sui vinti, i trasformisti che salgono sul carro del nuovo souverain. E tutto ciò provoca malumori diffusi e procura al regista accuse di revisionismo, di voler infangare la Resistenza; la palese stupidità d'una simile taccia segnala una volta di più quanto sia pericolosa la monumentalizzazione del passato, quanto sia scomodo avvicinare in modo antiretorico i gorghi della Storia, quanto timore incuta tuttora il guazzabuglio del cuore umano.

Verhoeven, a distanza di sei anni dalla sua ultima regia, non solo torna a girare nella natia Olanda dopo la lunga parentesi hollywoodiana, ma recupera anche il suo sceneggiatore di fiducia e il genere con cui s’è fatto conoscere internazionalmente, il dramma storico con forti componenti tragiche. Di opere avventurose (non impegnate/impegnative) con cattivi nazisti, fughe e persecuzione degli ebrei se ne sono viste tante: ciò che contraddistingue e, al contempo, affossa (quando il tipico cattivo gusto del regista diventa debordante) quest’opera sono le tracce crude di sesso e violenza. Verhoeven non lascia mai nulla all’immaginazione: se si nomina un paiolo colmo di merda, lo mostra e lo rimostra. Il bello del suo approccio al genere, come era per Soldato d’Orange (altro film sulla Resistenza olandese), è l’imperativo categorico di rendere la materia avvincente (mai pomposa) e provocatoria, portando alla luce fatti non riportati dai libri di storia di massa (per quanto manipolati: pare che il regista si sia in realtà ispirato alle vicende di due figure femminili distinte), politicamente scorretti: qui denuncia i (mal)trattamenti dei prigionieri olandesi da parte degli alleati e il fatto che i canadesi permisero ai nazisti di fucilare un loro ufficiale traditore. Difetti nei modi a parte, il cinema di Verhoeven è sempre mirabile nelle composizioni cromatiche.

Forse Hollywood ha stemperato lo spirito sanguigno del cinema dell’olandese, ma ha acuito la sua tendenza alla spettacolarità tanto che Zwartboek riesce a coniugare in modo efficace l’azione allo sfondo storico, dribblando il documento (ma fino a un certo punto) e piegandolo piuttosto all’epica magniloquente, tipica dell’opera del regista. Il risultato è un film composito, anche appassionante, in cui eroi e traditori sono dove non te li aspetti e il sesso è a tratti un’arma, a tratti la chiave per comprendere l’assurdità del razzismo (love story impreviste si profilano fin dall’inizio). Apparenze su apparenze (anche i peli pubici si travestono) per svelare il volto doppio del Potere (l’ufficiale nazista che tenta l’accordo con la Resistenza), malvagi tra malvagi alle prese con la burocrazia della morte e buoni divisi in fazioni, confusi essi stessi dalla facilità con la quale ciò che sembra potrebbe non essere. Nel rutilante e mistificatorio balletto l’ironia crudele dell’epoca obbliga la protagonista (la splendida Carice Von Houten) a un duetto canoro col carnefice dei suoi genitori e a palate di merda sul corpo, firma di un autore che non ama smentirsi. C’è chi ha parlato di revisionismo, critica ideologica che vuole applicarsi ad ogni costo, anche quando non c’è trippa per gatti: Verhoeven se ne frega e allo shoah-movie preferisce, scorrettamente, lo shoah-show.
