Drammatico, Focus, Recensione, Religioso, Storico

BENEDETTA

TRAMA

Nel XVII secolo, mentre la peste si diffonde in Italia, la giovanissima Benedetta Carlini entra nel convento di Pescia in Toscana. Qui, la ragazza rimane coinvolta in una relazione proibita con un’altra donna.

RECENSIONI

Problematico, derivativo, in via definitiva bello, il (o la) Benedetta di Paul Verhoeven mette il dito in molte piaghe, non ultima quella delle peste nera che imperversa nell’Italia del XVII secolo, miracolosamente risparmiando l’ameno paesino di Pescia. Qui risiede suor Benedetta Carlini, novizia del Convento delle Teatine fin da piccola votata alla Vergine e a Gesù, con cui dialoga attraverso vivide visioni.
Verhoeven, attingendo dal e romanzando il saggio di Judith C. Brown Atti impuri – Vita di una monaca lesbica nell’Italia del Rinascimento, si lancia a piene mani in un territorio delicatissimo, e più che astrarre estrae con coraggio una sorta di genesi (o palingenesi) della pulsione erotica nel luogo simbolo dell’interdizione cristiana: l’abbazia. Ne sortisce un racconto del rimosso, in cui Benedetta, ambigua figura fra il mistico e il ciarlatano, assurge a sineddoche (parte per il tutto) di quell’umanità timorata di Dio a tal punto da darsi spontaneamente ad apparati di potere questi sì perversi (il convento come luogo in cui si entra a pagamento, la volontà del prevosto di scalare la carriera ecclesiastica a discapito della verità, il viscido nunzio Alfonso Giglioli), ma soprattutto reprimendosi nella costrizione del corpo e del desiderio sotto l’esile velo di un soggolo. È proprio questo velo che Benedetta, guidata da una serie di contingenze o di provvidenze (chi legge farà la propria scelta), programmaticamente rimuove, fino all’apice a metà film in cui consumerà il suo primo compiuto rapporto saffico con Bartolomea, giovane e (non poi così) ingenua novizia, in una sequenza di straordinario erotismo che situa un po’ sardonicamente il film a metà fra le suore ormai scomparse da un certo immaginario porno italiano, di cui forse gli ultimi strascichi sono nell’Elisabetta Canalis di quell’obbrobrio di Decameron Pie (Leland 2007), e una sorta di Vita di Adele (Kechiche 2013) in salsa monacale.

Se la sessualità sembra essere il fil rouge di Benedetta, che appena entrata in convento sugge in maniera non del tutto innocente il seno di una statua della Madonna (viene in mente, per qualche motivo, la giovane Joe di Nymphomaniac, Von Trier 2013, che fluttua in aria durante il suo primo orgasmo, vedendo proprio una Madonna col bambin Gesù), questa è solo il mezzo attraverso cui mettere a nudo l’opposizione fra spirito e corpo, su cui si impernia il “ricatto” cristiano dell’anima.
Benedetta entra in Convento, e una suora per prima cosa la veste con un’ispida tonaca, dicendole che il prurito che le genera è voluto poiché non deve sentirsi a suo agio col suo corpo; dopodiché, non paga, le mostra il suo dito finto, asserendo che desidererebbe che tutte le sue membra fossero ugualmente lignee, libere così dal giogo della cupidigia. In tutta risposta l’adulta Benedetta, nel culmine del suo rapporto con Bartolomea, la cui conoscenza è iniziata defecando assieme nella comune latrina, con tanto di rumorose e rivoluzionarie flatulenze in stile Havana di Maps to the Stars (Cronenberg 2014), si fa penetrare con la Madonnina di legno che si era portata sin da piccola, per l’occasione scolpita a mo’ di dildo. Chiaramente avanza nell’intelaiatura di riferimenti la famosa scena del crocifisso de L’esorcista (Friedkin 1973), tanto più se si pensa che Benedetta a più riprese ci appare effettivamente posseduta, con tanto di voce arrochita, sebbene in questo caso da Cristo. Ovunque attorno alle due donne è predicata la sofferenza come unico modo per avvicinarsi al Signore, e di contro le due si concedono invece al piacere. La stessa Benedetta vive questa pulsione, naturalmente, come colpa, perseguitata da sogni-visioni in cui varie tentazioni la aggrediscono e un Gesù sessualizzato e supereroico la “salva” da se stessa e dai suoi pensieri peccaminosi, che arrivano fino a fantasie di stupri di gruppo debitrici, in qualche modo, della Séverine di Bella di giorno (Buñuel 1967), così come di molte altre eroine bunueliane (si pensi per esempio a Tristana, 1970).

Il punto è proprio questo: a Benedetta è stato insegnato che se fa bene allora è grazie a Gesù, e che se fa male invece è stato il diavolo a indurla (così dice a Bartolomea dopo averla costretta sadicamente a ustionarsi la mano in un paiolo). Chi sia lei, cosa voglia e cosa senta – come le chiede lo straordinario personaggio della badessa – le è precluso saperlo. L’impossibilità di realizzazione dell’io, con tutto il carico di conseguenze nefaste, è proprio nell’intercessione prepotente di Gesù, che tuttavia per Benedetta diviene figura identificativa: ella lo vede sulla Croce e denudandolo nota che ha una vagina anziché il pene, si procura le stigmate per emularne la sofferenza (bella la scena in cui la badessa si interroga su una semiologia del miracolo, chiedendosi come mai manchino i segni della corona di spine), infine parla e agisce come una sorta di novella Messia, orgogliosamente donna, un po’ come accadeva con Bethany in Dogma (Smith 1999). Più dunque che intendere il film come una messa in mostra del lato oscuro della Chiesa attraverso la blasfemia, cosa che sarebbe fin troppo facile, è produttivo leggerlo come una riflessione sulla soppressione dell’Io, nelle sue componenti più o meno torbide (ammesso che l’aggettivo non sia esso stesso moralistico), attuata dal costrutto religioso. Questa pare essere la vera “scomodità” di Benedetta, il cui atto di denuncia è profondo proprio che oltrepassa quelle carni che con buona maestria sono messe in scena nei loro tormenti (la scena della tortura con la pera divaricatrice alla povera Bartolomea) e nei loro piaceri. Il Convento così assume le sembianze simboliche del castello di Prospero di Poe, messo poi in scena magistralmente da Corman in La maschera della morte rossa (1964) e non solo, da cui la peste non entra né esce, dunque plausibilmente puro, e che pure invece si fa incubatore in questo caso non di sfoghi ma di mortificazioni, del corpo e della coscienza. È come se il film di quarantena scendesse a patti con la repressione vittoriana di Picnic ad Hanging Rock (Weir 1975). Il sesso è atto di Passione nel senso cristiano e quindi anche dolore, liberatorio come sancito dal finale di Eyes Wide Shut (Kubrik 1999) (la “cosa importante da fare il prima possibile”), cagionatore dei pesi che la presa di coscienza e di libertà comporta, finanche arrivando all’estasi divina (quando Benedetta confessa il messaggio di Dio all’orecchio della badessa – ora retrocessa a grado di semplice suor Felicita – non può che figurarsi nella mente il finale di Martyrs, Laugier 2008, che condivide con Benedetta non solo la francofonia). In generale echeggiano (si diceva all’inizio, il film è derivativo) le varie Giovanne d’Arco cinematografiche, da quella dreyerana in avanti, la Bess di Von Trier (Le onde del destino, 1996), la Madre Giovanna degli Angeli di Kawalerowicz (1961), forse anche un po’ il Gesù torture-porn di Gibson (La passione di Cristo, 2004).
Ecco dunque che Verhoeven dimostra, di nuovo, un’ottima penna (sua, con David Birke, la sceneggiatura), un’ottima mano (nulla da dire su fotografia, montaggio e formalità varie, che sono sostanzialmente piane, lasciando che il tutto “scorra” con buona fluidità), e delle ottime idee. Suo un film politico e coraggioso, forse erede ufficioso e sicuramente “stemperato” del mitologico cult di Russell I diavoli (1971), non già o non solo perché desacralizza la Chiesa, ma anche e soprattutto perché è un film femminista in senso pieno e, direi, in senso tecnico.
Laddove il demone del mansplaining si annida, Verhoeven con grazia e malia ci racconta le vicissitudini di Benedetta Carlini, cui il martirio fu negato, e che poté ogni tanto ancora cenare con le sue consorelle, ma solo, si badi bene, seduta per terra.

Un film come Benedetta, Paul Verhoeven avrebbe potuto girarlo anche molto prima di adesso, e molto prima della sua (ottima) biografia critica su Gesù Cristo del 2011. Perché allora Benedetta arriva proprio nel 2021 (benché pronto dal 2019)? Banalmente, perché il mondo del 2021 è il mondo di cui Netflix è la tristemente adeguata forma simbolica. È il mondo della “fine del lavoro”, il mondo in cui qualunque ambito lavorativo vede decrescere la propria dimensione produttiva (o anche solo “utile”) e cresce a dismisura la dimensione amministrativa. Quest’ipertrofia, però, non è più quella impersonale del capitalismo burocratico weberiano: è invece una fase neo-feudale in cui i rapporti aziendali vengono personalizzati, e quelli personali aziendalizzati. Del resto fu Weber stesso a riconoscere nel protestantesimo le origini del capitalismo: il capitalismo (e quindi il mondo) di oggi è tuttavia un mondo che guarda alla più grande macchina amministrativa non impersonale (fondata, cioè, su rapporti di carattere strettamente personale, e in quanto tale sensibilissimo alla corruzione) di tutta la Storia dell’uomo, ovvero la chiesa cattolica. Netflix è la tristemente adeguata forma simbolica di tutto questo perché le sue mille serie tutte uguali si fondano, al netto delle ovvie quanto ininfluenti variazioni di questo schema, su un medesimo principio: il mondo rimpicciolito in un ambiente più o meno indirettamente aziendale (che sia l’ambiente professionistico degli scacchi, un medioevo di fantasia o quant’altro) in cui tutti cercano di manipolare il prossimo a fini di avanzamento professionale. Tutto qui. Il suo pubblico è gente che in ambienti del genere (dalle multinazionali alle amministrazioni locali alle università a qualsiasi altra cosa rimanga ancora in piedi oggi) ci passa tutto il giorno, e alla sera guarda Netflix, dove viene riproposto un mondo superficialmente diverso ma strutturalmente identico, per confermare l’idea che quello è oggi l’unico modo di vivere possibile e per esorcizzare l’idea insopportabile che le cose potrebbero essere diverse.

Il monastero secentesco di Pescia che vediamo in Benedetta è retto dalla badessa come fosse la filiale di una corporation di successo. Nei suoi confronti, l’occhio di Verhoeven è massimamente materialista, attentissimo alle dinamiche politico-economiche che regolano ogni dettaglio del vivere monastico, dal mercanteggiare sulle doti delle novizie ai rapporti con le gerarchie ecclesiastiche e quant’altro. E infatti nella seconda parte si infiltrano tra le pieghe del film le incessanti, micragnose negoziazioni di potere, con il loro risaputo corredo di manipolazioni, voltafaccia etc., che formano la sostanza stessa di gran parte dell’offerta Netflix.
Perché dunque in questo mondo aziendalizzato in fondo così simile al nostro risulterà vincitrice proprio quella Benedetta che diede scandalo con una relazione lesbica che lei visse sempre come una relazione con Gesù Cristo e/o la Vergine Maria? È questo, in ultima analisi, il punto di questo straordinario testamento con cui il regista olandese lascia un preziosissimo trattato sul saper vivere ad uso delle nuove generazioni.
La saggezza aziendale (l’unica ahinoi possibile oggigiorno) di cui ci mette a parte Verhoeven è questa: chi vive l’ambiente aziendale cinicamente, senza identificarsi mai con il proprio “brand” ma tenendolo a distanza per usarlo a fini puramente strumentali per incrementare il proprio potere, alla fine incontra sempre uno che fa la stessa cosa, però di più e meglio. E soccombe. Sempre. Quindi l’unica maniera per vivere l’ambiente aziendale è iperidentificarsi con il proprio brand nonostante la palese inconsistenza di quest’ultimo. Netflix non serve, basta e avanza il vecchio credo quia absurdum: se vedere il prossimo come un possibile oggetto di manipolazione alla fine si ritorce sempre contro il manipolatore, nulla può fungere da collante sociale quanto la fede verso qualcosa che, proprio perché impossibile da credere, attira a sé la fede di altri come indispensabile a che ci si creda. Il potere arriva come benvenuto, per quanto non direttamente ricercato, sottoprodotto della sostanza sociale e condivisa a cui si ha accesso attraverso la fede in ciò a cui non si può credere.

Verhoeven ci ricorda che ad allenarci in questo intreccio di fede, socialità e potere che è l’unico vero segreto della vita aziendale (oggi ahinoi coincidente con la vita tout court) non può essere la triste liturgia di Netflix, che ci conferma nell’idea sbagliata che la vita è una costante manipolazione interessata del prossimo. L’unica vera palestra per esercitarci in quell’intreccio è, invece, il sesso. O meglio: il giusto (e perfettamente classico) approccio alla sessualità. Che non è quello della “netflixiana” badessa, la quale nonostante migliaia di amplessi (prima del monastero faceva la prostituta) non ha mai trovato un solo miracolo tra le lenzuola. Non lo ha trovato perché il suo, a differenza di quello di Benedetta che i miracoli sotto le lenzuola li ha trovati eccome, non era l’atteggiamento giusto.
Qual è, dunque, l’atteggiamento giusto verso cui Verhoeven vuole sensibilizzare le nuove generazioni, e che non può essere confuso con la mera quantità della pratica? L’atteggiamento giusto è quello fedele fino in fondo a ciò su cui tanta psicanalisi ha insistito, ovvero al fatto che l’attività sessuale ruota intorno a un fantasma, vale a dire una scena immaginaria che dà sostanza al desiderio latente. Come il brand aziendale, il fantasma è qualcosa a cui non si può credere fino in fondo: è una scena che, a prescindere da quanto vi rimaniamo attaccati, è comunque immaginaria. È un’immagine di cui non possiamo nasconderci fino in fondo l’intrinseca implausibilità. È una tela piena di strappi, e questi strappi fingiamo di non vederli affinché la tela possa fungere da supporto immaginario dell’attività sessuale.

Il brand aziendale a cui Benedetta si iperidentifica nella sua corporation (una delle più grandi multinazionali di tutti i tempi) si chiama “Gesù Cristo”. Questi e la Vergine Maria sono i fantasmi a sfondo concretamente sessuale che lei si porta in convento. Successivamente, tali fantasmi assumeranno un corpo nella persona della sua partner saffica Bartolomea, ma Benedetta avrà sempre chiaro dall’inizio alla fine che il loro rapporto non cesserà mai di essere sostanzialmente masturbatorio, perché al centro rimane sempre e comunque il fantasma, non l’altra persona: prima ancora che all’intimità carnale, Benedetta inizia Bartolomea alla fondamentale verità del sesso, e cioè che il partner sessuale non è che un’immagine allo specchio. Ed è del resto questa centralità dello specchio che fa cadere, nell’interpretazione ultraortodossa di Verhoeven, ogni differenza tra omosessualità e eterosessualità (del resto, i fantasmi di Benedetta sono tanto Gesù quanto Maria): in ambo i casi, il partner sessuale non è che un supporto per la proiezione del fantasma. Anche per questo, Benedetta sbeffeggia tanto i contemporanei LGBTQ+ che credono di avversare il cattolicesimo e/o esserne avversati, quanto i contemporanei cattolici che credono di avversare i LGBTQ+ e/o esserne avversati, mostrando invece che la fedeltà vera agli ideali degli uni quanto degli altri porterebbe a combattere dalla medesima parte della barricata, non in parti avverse. Questa, la paradossale ma giustissima concezione di “radici europee” rivendicata da questa coproduzione verhoeveniana. Ma quello che interessa davvero all’olandese è probabilmente qualcosa di ancora diverso: è mostrare come il corpo, nel momento stesso in cui squarcia la tela del fantasma, ne riconferma la tenuta e la consistenza. L’incontro con l’altro ci confronta con qualcosa di eccessivo rispetto alla scena immaginaria che ci figuriamo nelle nostre teste a sostegno dell’attività sessuale: lungi, però, dal rimpiazzare l’astratto con il concreto, il fittizio con il vero, questo eccesso si presta benissimo a ricucire gli strappi della tela fantasmatica che è l’eccesso medesimo a produrre. Più intimamente si incontra l’altro, più solipsistico è il rapporto con il proprio fantasma. E più si rimane attaccati al proprio fantasma, più si incontra l’altro. Secondo la corretta interpretazione di Verhoeven del cattolicesimo, è questo il punto di convergenza tra sesso e religione: non c’è niente di più spirituale dell’eccesso del corpo sullo spirito. Del resto, il primo miracolo cui ci fa assistere il film è un uccellino che caga in testa a un cattivo all’invocazione della Vergine Maria da parte di Benedetta.

Una volta acquisita familiarità con questo fondamentale paradosso dell’esperienza umana attraverso il sesso (o meglio: attraverso il sesso vissuto nel modo giusto, ovvero con piena aderenza al fantasma e alle conseguenze paradossali di questa stessa aderenza), come ci invita a fare Verhoeven, i micragnosi e cinici giochi di potere alla Netflix sono come acqua fresca. Per vivere in un mondo aziendalizzato che fa il verso alla gigantesca macchina amministrativa che fu la chiesa cattolica, non serve adottare una cinica distanza strumentale per cui il prossimo è sempre e solo un oggetto da manipolare per fini di potere. L’unica via è iperidentificarsi con il brand (una volta si sarebbe detto: con l’ideologia), cosa che niente come il sesso insegna a fare, essendo il sesso l’esperienza di come il velo del fantasma (la scena immaginaria che sostanzia il desiderio) viene rinsaldato proprio da ciò che lo squarcia. Iperidentificandocisi con il brand, si intercetta tanto più facilmente la contingenza concreta e presente che sembrerebbe invece sbugiardare quell’astrazione che è il brand; e il circolo vizioso del management che sempre di più non ha altra funzione che mantenere se stesso riesce a tenersi in piedi non grazie al quotidiano gioco al massacro della continua manipolazione reciproca (che rischia a ogni passo di trasformare il circolo vizioso in vicolo cieco), ma proprio grazie all’aprirsi alla contingenza, come Benedetta alle prese con la gestione della peste che assedia Pescia, forte dell’esperienza di quando la contingenza-Bartolomea ha sconvolto, ma per ciò stesso rinforzato, i propri fantasmi erotico-religiosi.
A Verhoeven non resta che perfezionare il migliore stile possibile a sostegno di una tesi del genere. Uno stile cesellato per decenni, e che potremmo definire lo stile di un Mel Gibson che sa quello che fa (esiste ossimoro più spericolato di questo?). Uno stile, cioè, che letteralizza i fantasmi immaginari senza indietreggiare di un centimetro né rispetto alla loro implausibilità (come nelle scene in cui Benedetta si figura l’azione salvifica di Gesù Cristo come uno che arriva a falcidiare serpenti maligni spada in mano con l’incedere furibondo di un RoboCop qualsiasi), né rispetto all’eccesso corporeo più greve (dalle scene di sesso esplicito a Benedetta e Bartolomea che familiarizzano scoreggiando insieme sedute sul cesso). L’una e l’altro, tuttavia, sembrano neutralizzarsi a vicenda: lungi dall’ostacolare l’ingresso dello spettatore in quella tela fantasmatica che è il film, queste forme di eccesso, domate con lucida classicità, sembrano al contrario stimolare le energiche scorribande registiche di Verhoeven, che trascinano lo spettatore dentro la tela macinando eccesso su eccesso, facendogli credere, come e più che in Starship Troopers, in ciò in cui dichiaratamente, e senza minimamente nasconderlo, non è possibile credere.