TRAMA
Nel mondo si diffonde una incomprensibile epidemia che spinge le persone a togliersi la vita. L’unica arma di difesa sembra essere non aprire gli occhi quando ci si trova all’aperto. Maloire, in stato di avanzata gravidanza e rimasta sola, cerca di sopravvivere.
RECENSIONI
Bird box, per un po’ “film del momento” da non perdere, rappresenta anche un passaggio inedito nella produzione di Susanne Bier, Regista interessante, sebbene non abbia saputo evitare passi falsi come, recentemente, la miniserie The night manager (e in parte il film Love is all you need), in un percorso diseguale ha sempre affermato il suo stile. Dopo In un mondo migliore e Second chance, la scelta di Bird box può forse spiazzare; eppure, se da un lato segna un cambiamento di genere, dall’altro ben si presta alla proposta di dilemmi morali tanto cari alla Bier.
Al tempo stesso, si tratta di un altro bel passaggio nella filmografia di Sandra Bullock, un tempo richiesta ma anche guardata dall’alto in basso e, solo raggiunta la maturità, considerata un’attrice e non una graziosa meteora. Non soltanto grazie all’Oscar per The blind side, ma ancor più per aver superato la pericolosa soglia dei quaranta e poi quella dei cinquanta in piena attività - protagonista e con successo. Da fidanzatina d’America per pellicole romantiche al rovesciamento di ruoli di Ricatto d’amore (più matura di lui, dominante, tutt’altro che tenera), fino al graduale allargarsi del ventaglio di ruoli interpretati - dopo quello nella fantascienza d’autore di Gravity, questo, nel quale dimostra perfetta capacità di adattamento al suo personaggio.
Veniamo a Bird box, uno dei prodotti Netflix che hanno suscitato maggiore interesse quest’anno. La trasposizione cinematografica dell’acclamato romanzo di Josh Malerman parte da un materiale da maneggiare con cura e ricco di potenzialità e sceglie di discostarsene in alcuni punti.
Il film arriva in una stagione di horror-non del tutto horror di stampo autoriale. Il più vicino per plot e stile è il bel A quiet place - lì la privazione riguardava la possibilità di parlare ed emettere qualunque genere di suono, pena la morte. Il pensiero, però, va subito anche a E venne il giorno di Shyamalan - il male ignoto ed invisibile, nell’aria, che si diffonde incontrollabilmente, incomprensibilmente, ed induce al suicidio.
Il fulcro di Bird box, dunque, sta in una privazione sensoriale come metafora dirompente della paura e dell’angoscia.
Il prologo è un dialogo via radio che propone una difficile via di salvezza. Dopo questa partenza nel cuore della storia, la narrazione segue due piani temporali che avanzano parallelamente, il secondo scandito dalle scritte che quantificano le ore trascorse sul fiume, a sottolinearne il peso per i viaggiatori. La prima linea narrativa, che ricostruisce il passato, vede la protagonista in un gruppo di superstiti, la seconda sola con due bambini ed una gabbietta di uccelli.
La protagonista è una pittrice solitaria, sociopatica come probabile conseguenza dell’assenza di genitori affettuosi, terrorizzata dal proprio stato di gravidanza non scelto. Cresciuta dai lupi, quindi abituata a lottare.
Lo scenario apocalittico che fa da sfondo alla storia - suicidi di massa in Europa e in Siberia, poi ovunque - viene inizialmente introdotto dalla televisione e sembra per questo lontano, abbastanza da non interferire con piccoli problemi quotidiani e punzecchiature tra sorelle. Il dramma dilaga all’improvviso, inarrestabile: dalle nausee e le battute sugli stalloni direttamente all’apocalisse. Familiari scorci di catastrofe, tra incendi e automobili impazzite portano via la sorella della protagonista e preparano allo sgomento che accompagnerà tanta parte del film.
Ci sono tutti i topoi dei film catastrofici, dove le condizioni estreme svelano la vera natura delle persone.
Nella fase-rifugio si mette in scena la più classica situazione di convivenza in circostanze estreme di un gruppo di persone diversissime tra loro. C’è chi aspetta l’esercito, chi crede di aver trovato tutte le risposte su Internet, chi non si fa illusioni e ostenta cinismo. Questa varia umanità costretta a coabitare pecca un po’ di stilizzazione: ci sono il cinico diffidente, l’indifesa, il nerd schizzato, il pragmatico. Sappiamo che uno dopo l’altro usciranno cruentemente di scena, si tratta solo di scoprire come. Così sono le occasioni che portano avanti l’azione: la necessità di avventurarsi fuori per procurarsi il cibo, gli intrusi dall’identità incerta, quanto rivelato dalle telecamere che circondano la casa.
Il dilemma se aprire o no le porte-rifugio accompagna tutto il film, come metafora non soltanto della possibilità/opportunità di restare umani nonostante le circostanze straordinarie, ma anche, insieme a ciò, dell’esporsi a rischi (che non sempre paga): aprirsi all’altro, solidarizzare, prendersi cura, responsabilizzarsi tramite l’altro (su questo percorso, la genitorialità negata/accettata della protagonista). Tuttavia, il contatto col mondo esterno, per gran parte della storia, porta morte. Solo alla fine una piccola comunità selezionata sarà la salvezza.
Ci sono poi le entità misteriose - aliene?, proiezioni dell’inconscio? delle persone care perdute, dunque delle debolezze? addirittura guerra batteriologica? Si manifestano come vento e voci e la scelta di rappresentarle in questo modo si rivela vincente: un pericolo indefinito, intangibile ed invisibile, inquietante.
A queste presenze malefiche sono immuni solo i ciechi ed i pazzi, che però diventano invasati ed assassini (“tutti devono vedere”); ed è insolito che i folli - i non allineati - in questa storia siano i malvagi.
Molta parte del pathos del film si fonda sulla claustrofobia generata dall’incubo di non poter vedere. Privati del più importante dei sensi, i personaggi non possono vedere dove camminano, chi e dove siano le minacce, né, per esteso, chi sia affidabile e chi sia portatore di un inganno ed un rischio. E’ nell’angosciante brancolare nel buio con una benda sugli occhi, ma percependo nitida la minaccia esterna e vicina, che il film trova i suoi momenti più forti e riusciti.
Sia nella fase survival, sia in quella del viaggio per la salvezza, sono molte le sequenze piene di una suspense ben dosata e non superficiale. La Bullock, bendata, sulla barca, che spara alla cieca nella nebbia. La protagonista mentre stringe i neonati nascosta sotto le coperte per scoprire solo all’ultimo momento chi è rimasto in vita, se l’assassino o il salvatore. Lo smarrimento finale dei bambini, con i tre personaggi preda delle voci ingannevoli, come sirene tentatrici che nascondono la morte.
I cinque anni di intervallo tra la prima e la seconda parte della storia evidenziano la capacità di adattamento dell’essere umano: un filo allungabile per ritrovare la strada con gli occhi bendati, campanellini per localizzarsi, tenaci ricerche via radio, ed una parvenza di normalità subito dopo l’ennesima sfida con la morte.
Dopo tanta azione e tanta suspense il film sceglie un finale distensivo ed i buoni sentimenti.
Dopo il rifiuto dell’onere insostenibile di scegliere quale dei due bambini dovrà guardare durante il viaggio in barca, e quindi rischiare la vita, che aveva visto prevalere chiaramente il cuore della pur tosta Malorie, l’epilogo segue un percorso che privilegia i sentimenti (su questa linea anche l’incontro con la pediatra). La protagonista dà finalmente i nomi ai bambini, li chiama figli, accetta con se stessa e con loro di essere la loro madre. In un finale che sceglie di discostarsi in parte dal romanzo vince la speranza: il recupero della luce, il volo finalmente libero degli uccelli, le vite dei bambini e le loro identità che promettono un futuro.
Per fortuna, però, il mistero resiste fino ai titoli di coda e non vengono date spiegazioni che sgonfierebbero la tensione.
Bird box è quindi un po’ horror un po’ survival movie catastrofico-apocalittico, un film fantastico, un thriller d’azione, ma anche film di personaggi e psicologie, di metafore e scavo nelle paure umane. In tutto questo, svolge piuttosto bene la sua missione.