TRAMA
Primi anni ‘60. Sulla costa californiana splende il sole. In una manciata di anni, l’istrionico Walter Keane diventa il pittore più venduto al mondo. I suoi quadri raffigurano marmocchi dolenti con occhioni a forma di frittella. Se i critici storcono il naso, il pubblico va in brodo di giuggiole. Eppure è una frode. Una dei più incredibili inganni che il mercato dell’arte ricordi. Walter sa a malapena tenere in mano un pennello. L’unica vera pittrice della famiglia Keane è la timida moglie Margaret.
RECENSIONI
L’avvio di Big Eyes è affidato a due frasi. Una è messa in bocca a Dick Nolan, lo smaliziato gossip journalist che offre l’esca al pubblico, annunciando che quella che sta per raccontare è la più incredibile storia che gli sia mai capitata fra le mani: “The fifties were a great time [pausa], if you were a man” – probabile che non lo fossero per nulla, se per caso ti capitava invece di essere una donna.
L’altra, in esergo, è una citazione da Andy Warhol, che in una stoccata condensa l’humus culturale di un’epoca: “I think what Keane has done is just terrific. If it were bad, so many people wouldn’t like it”.
La condizione della donna a cavallo fra anni '50 e '60, fino alla simbolica liberazione all'inizio dei '70, e il rapporto fra arte e società nell'età dell'espressionismo astratto e della pop art. A legare i due poli sono i temi dell'inganno e della manipolazione. Ci si muove lungo la dorsale che va dalla supremazia domestica e sociale dell'uomo sulla donna - che assume i contorni dell'opposizione mitica fra maschio estroverso e femmina introversa, qui portata al parossismo - alla redditizia frode commerciale che frutta ai Keane milioni di dollari fra vendite dirette, merchandising e diritti d'immagine. Burton sceglie una storia incredibile (ma tutta vera) - quella di Walter Keane e di sua moglie Margaret, dei cui lavori il regista di Burbank è, da tempo, collezionista e ammiratore -, e tesse un biopic cronologico che sconfina nella favola. Come una Cenerentola silenziosa, Margaret cancellerà un decennio di soprusi con un insperato colpo di spugna, vendicando idealmente le donne della sua generazione e guadagnandosi il proprio posto al sole.
Fin dalle prime inquadrature, quella di Margaret pare una fuga senza fine. Imprigionata in un quartiere dalle tinte pastello – con una panoramica dall’alto che ricorda quelle riservate alla bizzarra periferia di Edward Mani di Forbice –, una già lacrimosa Margaret prende armi, bagagli e figlioletta, abbandona il primo marito e sfreccia a tutta velocità verso la baia di San Francisco. La libertà ha il sapore dell’incertezza. L’aspirante pittrice si sceglie con cura una nuova gabbia. E qui entra in scena Walter. Il pittore galante e cosmopolita che sogna gli impressionisti francesi, ma è nato nell’epoca sbagliata, quella della luccicante scena artistica californiana che vuole solo Rothko e Kandiskij, e presto vorrà Lichtenstein e Warhol. Con le sue leziose scene di strada parigine, Walter sembra solo fuori tempo massimo. In realtà è un impostore egocentrico, forse un po’ folle, gran venditore di se stesso e capace di intuire il colpaccio che gli si sta materializzando davanti. Impalma la talentuosa Margaret e la costringe a una vita di schiavitù. Mentre la moglie respira trementina, dipingendo senza sosta in una stanzetta, il marito si occupa di diventare il pittore più popolare al mondo, l’art sensation che si muove a proprio agio nei salotti, amico delle celebrità (“sono passati i Beach Boys a casa”) e, forse, di qualche mafioso. Da Natalie Wood a Olivetti, tutti hanno il loro Keane personale sopra il caminetto. Costretta a ingannare la figlia Jane, a fare da tappezzeria alle mostre del marito, Margaret è la quint’essenza di un’emancipazione che tarda ad arrivare, dove le donne finiscono per ridursi a due stereotipate categorie – o casalinghe o squinzie (con l’amica DeeAnn, che cambia nome per essere più cool).
Come metafora della liberazione femminile, il biopic sui Keane sfida il senso del ridicolo. Minacciata di morte dal marito, Margaret scappa alle Hawaii, si converte e, spinta dalla figlia, confessa tutto in diretta radio, per poi trascinare il perfido Walter in una causa milionaria, conclusasi solo quando ai due sedicenti pittori è chiesto di realizzare un quadro di prova direttamente nell’aula del tribunale. La storia è potenzialmente drammatica, ma la recitazione di Waltz (e il 99% delle sue battute) e un senso di pacchianeria diffusa, malgrado la messinscena posata, virano al grottesco. La sceneggiatura della coppia Scott Alexander/Larry Karaszewski, storici collaboratori di Tim Burton dai tempi di Ed Wood, accentua il sapore paradossale, concentrando il succo in una serie di scene madri, che semplificano la contorta psicologia di Margaret e Walter, vittima e carnefice legati da un rapporto di reciproca dipendenza (avrebbe mai sfondato Margaret senza Walter a farle da battistrada?). Il punto di non ritorno è il tentativo di Walter di fare fuori la moglie, colpevole – secondo lui – di aver sabotato il “capolavoro” che l’avrebbe consegnato alla storia, quell’imponente Tomorrow Forever che oggi figura nella collezione permanente delle Nazioni Unite e che, allora, venne bollato come il peggio del kitsch.
Ma che cosa sono quei bambini dagli occhioni tristi? Questa è la domanda ricorrente, quella che Walter teme come la peste, consapevole che quegli occhi sono la misura del suo inganno. Se fossero stati “sul serio” dipinti da lui, donnaiolo impenitente e chiacchierone, quei marmocchi non potrebbero essere che fasulli. Poco importa che lui racconti al mondo di essere rimasto impressionato dagli orfani tedeschi post-bellici intravisti negli anni giovanili. A differenza di quanto pensa il granitico critico John Canaday, storica firma del New York Times e massimo detrattore di Keane, non è la falsa empatia di Walter per i miserabili a ispirarli, ma la solitudine spaventata di Margaret. Se a dipingerli è l’invisibile, timida, un tempo sorda Margaret, la storia potrebbe essere un’altra. Quei bambini sono lei, anche se per anni nessuno se ne accorge. E, in fondo, il pubblico non chiede altro che una bella storia che trasudi sincerità. Solo a qualche critico spocchioso interessa se quella di Keane sia arte (e semmai il dubbio è come a qualcuno possa venire in mente che lo sia). Importa, piuttosto, che Walter sia “davvero” un sensibile osservatore degli orfani, che si mostri generoso ai vernissage, o che litighi sul “serio” con Banducci, il gestore dello storico nightclub di North Beach (l’Hungry I), che ironizza sui suoi lavori. Il pubblico non chiede che un quadro sia bello o “artistico”, ma solo che sia – in qualche modo strano – vero. Cerca quella stessa sincerità che Margaret rivendica con orgoglio come unica vera cifra estetica della sua produzione. Questo è il grande paradosso che Burton ironicamente mette in scena. La sincerità e la verità a ogni costo, in un’epoca che aprirà invece al consumismo sfrenato, alla produzione seriale – con i poster e i calendari dei Keane riprodotti su scala industriale (i titoli di testi sono premonitori) e venduti anche nei supermercati –, alla sgargiante cartellonistica pubblicitaria. Un’epoca di mistificazione in cui Walter diventa avvocato di se stesso dopo aver visto Perry Mason arringare la giuria in tv. Il profeta è Andy Warhol. Burton ci costruisce attorno un mondo plastificato, un universo di stravaganti ville con piscina e grandi vetrati, dove il Golden Gate svetta in un cielo azzurrissimo, i club che ospitano cabarettisti e musicisti sono oscuri quanto basta, i giornalisti restano scaltri e indifferenti. Dominano i rosa, gli ocra, i verdi. Ci sono i vestiti e le auto giuste. Si percepisce per qualche istante il palpito di un’epoca. Ma è puro piacere per gli occhi, (volutamente?) superficiale e naif quanto l’ansia di verità che si respira per tutto il film.
Nel sogno incubo di Margaret, al supermercato tutti hanno grandi occhi cerchiati di nero – una delle poche divagazioni gotiche che Burton si conceda. Per un attimo, ci si chiede se siano così perché sono tristi sul serio, o perché i quadri dei Keane vanno di moda e tutti si truccano come le loro figurine-bambole. Le persone non comprano i quadri che le emozionano, ma si emozionano per i quadri che qualcun altro ha deciso che dovranno comprare. Margaret non ci riesce, ma Walter l’ha capito benissimo e fa di tutto per prolungare al massimo i suoi profetici quindici minuti di celebrità.
Viene in mente M. Butterfly: è imperativo, per quanto le opere prendano spunto da fatti veri e/ma incredibili, rinvenire la giusta chiave per renderli plausibili. Gli sceneggiatori Scott Alexander e Larry Karaszewski, che per Tim Burton firmarono l’altro film biografico Ed Wood, non sono sprovveduti e disseminano il film delle ragioni che possano aver portato Margaret ad essere complice del marito nell’esproprio della propria produzione artistica, finanche con la scena del confessionale, dove è il prete a rammentarle che, in quel periodo maschilista, il capofamiglia ha sempre ragione. Morale degli autori: Margaret è ingenua, sottomessa alla figura maschile (la voce fuori campo del giornalista di Houston lo rimarca fin dall’inizio), timorosa di essere accusata di frode, consapevole di essere incapace a “vendersi”. Burton, invece, non è altrettanto accorto, non si preoccupa di conciliare la descrizione di una protagonista che, per dieci anni, subisce supinamente, con la prima scena in cui, e non erano in molte a farlo, lascia il marito. A parte questa incoerenza, la messinscena è inappuntabile: dalla fotografia di Bruno Delbonnel che opziona colori innaturali meravigliosi, a tutto l’universo imbastito da Burton attorno ad una Margaret Keane che ama da sempre. Rinviene il vero freak in Walter, sorta di folletto malvagio e menzognero, Grinch Beetlejuice dispettoso ma irresistibile nonostante tutto (compresa una scena alla Shining): il tono dell’opera è ilare, a specchio dei modi di rappresentare questo villain. Il “tocco d’autore”, invece, lo mettono gli sceneggiatori, con un discorso non qualunquistico sul senso dell’arte nel moderno, dove il talento non basta ma ci vuole chi sappia venderlo, dove non esiste l’opera d’arte in senso assoluto se non è anche in grado di donare emozioni; a seguire, riflessioni sull’era della riproducibilità tecnica, warholiana (non a caso, una sua frase in incipit), dove contano più le riproduzioni dell’originale.