Sperimentale, Storico

ARCA RUSSA

TRAMA

Un fantastico viaggio attraverso la storia della Russia, dall’epoca degli zar ad oggi, tra le sale dell’Hermitage di San Pietroburgo.

RECENSIONI

Bello sapere che c'è

Ci sono opere che vanno fatte e che sono importanti per il semplice dato di essere state realizzate, penso a certi film di Warhol o a LA VITA ISTRUZIONI PER L'USO di George Perec: è significativo sapere che imprese di quel tipo siano state concepite. Decisivo è l'atto del creare una cosa del genere e in rapporto a ciò il fruirne diviene secondario: è già bello sapere che ci sono. Tutta questa introduzione per dire che, al di là di quello che si può pensare del film di Sokurov, ARCA RUSSA è importante per il fatto di essere stato ideato e realizzato così com'è. Un'ora e mezzo di unico e autentico piano sequenza non è cosa da poco, soprattutto quando ci si aggira in un palazzo come l'Hermitage di San Pietroburgo e si orchestra un vero e proprio esercito di attori e comparse. I corridoi, le scale, i saloni dello splendido edificio diventano il teatro della Storia in cui un misterioso personaggio, pedinato da un regista che parla con voce off, si aggira passando, senza soluzione di continuità, dal passato al presente attraverso tre secoli. Non tutto convince in questo rutilante affresco che se ha dalla sua la fattura magistrale (davvero incontestabile e da applauso) sembra stentare un po' sul piano sostanziale: se da un lato il tono, a volte civettuolo, del visitatore straniero ha una leggerezza che ben riscatta l'impegno richiesto allo spettatore per seguire l'acrobazia di Sokurov in tutte le sue evoluzioni, dall'altro s'inciampa spesso in metafore quasi urlate, in una metatestualità fin troppo sottolineata, in cadute estetizzanti, in certo poeticismo un po' rozzo. Seguendo le orme di questo diplomatico che si accorge di essere un personaggio della storia nella Storia e si scopre suo malgrado a conoscenza di dati e fatti relativi agli ambienti che lo circondano, entriamo nelle stanze del Potere, in quella quotidianità che fa piccoli i grandi (cfr. MOLOCH - TAURUS evaporò per l'Italia-), al malinconico tramonto color sangue dell'era zarista (i membri della famiglia reale a colazione sembrano quasi dei fantasmi). A tratti molto suggestivo (il ballo finale), altre volte più zoppicante, ARCA RUSSA, girato (inevitabilmente) in digitale, è gioco colto e dimostrazione pratica di quali siano i nuovi confini verso i quali l'arte per immagini si può spingere oggi, di come la tecnologia può servire la ragioni del Cinema prima ancora di quelle dello Spettacolo.

Cocktail per un mausoleo

Un occhio inquieto passa dal buio e dall’oblio alla divina frenesia di un viaggio che è cronaca in tempo (ir)reale della Storia. Sguardo furtivo e corpo puramente virtuale (a differenza del suo eccentrico/egocentrico interlocutore, saldamente e sfrontatamente inserito in qualunque epoca perché fondamentalmente estraneo a tutte), il narratore – (tele)camera si aggira per le stanze di un dedalo imperiale nel quale si penetra per vie misteriose e contorte, in cui ci si muove frastornati, timorosi e insieme animati da una curiosità ingorda, dal quale non si vorrebbe, o forse non si può, uscire più. Luogo in cui il museo (il passato sotto vetro) e il teatro (il presente irrigidito dai cerimoniali) si incontrano e si riconoscono, l’Hermitage raccoglie frammenti impazziti di trecento anni di storia russa, senza che sia possibile stabilire se l’arca evocata dal titolo sia una difesa contro gli insulti del tempo e della memoria o una prigione in cui seppellire ciò che (forse) è stato e non può (più) essere. Comunque sia, il palazzo si offre alla vista del visitatore (dello spettatore) come un prezioso scrigno di delizie rococò (la recita musicale al cospetto di Caterina) e indizi wagneriani (le fanciulle – fiore al seguito di Anastasia), popolato d’impeccabili cavalieri e dame fine Ottocento non meno che di spauriti funzionari (ex?) sovietici, regno di una vaghezza densa di ombre, resa ancora più squisita dal gioco dei silenzi e dei fuori campo, dalla sensazione di essere davanti a un mondo di evidente finzione (le scene storiche come quadri di un allestimento che procede per stazioni brechtiane), che ostenta la propria origine aliena (i trompe-l’œil, le decorazioni su disegni di Raffaello). Lo sguardo è vigile e pietrificato, prigioniero di un incanto che si vorrebbe centellinare e che il moto sinuoso e inarrestabile della macchina da presa forza a bere d’un sorso, nel flusso di una danza (macabra) che non può terminare che nel nebbioso silenzio che avvolge i ricordi, i sogni. Sarebbe follia accusare Arca Russa di essere uno sterile esercizio di stile, dal momento che il film risulta memorabile in quanto meraviglia plastica, fantasmagoria di magistrale rigore e astratta (s)compostezza: i problemi sorgono nei momenti (troppi e troppo stiracchiati) in cui la seduzione labirintica di questa nave che (non) va è resa frigida dalla volontà d’inserire spiegazioni (il who’s who storico esibito dal regista-narratore) e commenti, in genere prevedibili e spesso imbarazzanti [il diplomatico che biasima aspramente la zoppicante cultura di un giovane (nostro) contemporaneo]. Meglio tralasciare le note didascaliche e gustare i momenti (l’anziana zarina in fuga nella neve, la visita guidata dalla custode cieca, l’epilogo) in cui il film risplende di sovrana, assoluta bellezza.

Arca(na) Russ(i)a – Sokurov ovvero il cinema come elegia

Arca russa, (pen)ultima opera sokuroviana, in più di un senso (non abbiamo ancora visto Padre e figlio, presentato da poco al Festival di Torino), fornisce la cifra di un cinema come messa in scena della deriva di un mondo, di un’epoca, di un universo storico (la Russia, ma l’Europa in genere anche, del ‘700) che non c’è più, ma che soprattutto manca proprio nel momento della sua rappresentazione, nell’istante dolente del suo sfuggirsi, del suo sfuggire al nostro sguardo ai nostri occhi e agli occhi di coloro che stanno guardando. Un movimento di fuga, che traduce poi il sublime movimento del cinema stesso come ipotesi irrealizzabile di fuga dal tempo, di sottrazione dal tempo come desiderio di eternità, di imperitura memoria. Movimento che paradossalmente non si muove (più) ma è avvolto da una sorta di sudario pellicolare, come ricordava Bazin, costretto in una forma che si affida a quella che è solo un’illusione di presenza, di contemporaneità, laddove si sa essere un non più, un insieme di istanti deperiti, sgretolati dal respiro funereo del tempo già stato, già fuggiti, ineluttabilmente trascorsi. Cinema che racconta visivamente il suo appartenere alle immagini, segni che sovrabbondano il reale, che si mostrano come eccedenza semiotica contraddicendo il loro presunto essere puramente mimetico, il loro andare semanticamente molto oltre la mera trasparenza oggettuale, il loro istituire rapporti “abissali”, o se si preferisce di secondo grado, con l’oggetto di cui sono immagine. E’ la costruzione stessa della scena in Arca russa ad attestarlo: le inquadrature necessariamente fluttuanti e per questo dolenti, incerte, vaghe e pur bellissime, in questo continuum finalmente realizzato, finalmente “ripreso” (ma anche rappreso) senza dover distogliere lo sguardo al quale tutte le opere di Sokurov anelavano, e forse già lo erano senza dover attendere l’avvento del dio (dalla/della macchina) digitale che tutto può osservare ininterrottamente, implacabilmente. Il continuo fluire dello spazio nell’indefinito gioco dei tempi (quello dell’enunciato, del racconto per immagini, e quello dell’enunciazione, della quantità di tempo impiegata nel raccontare) che si trasforma, si deforma, si dilata e si restringe in infinite, instabili, ondivaghe campiture (?), davanti ai nostri occhi che percorrono o si illudono di percorrere lo stesso viaggio del presunto regista, o dell’inquietante straniero (che inquieta non tanto il ragazzino di fronte al quadro ma piuttosto noi spettatori ai quali la sua strana figura balzata fuori da chissà quale spazio e chissà quale tempo non rende il debito conto, cioè non risponde al quesito di presenza (?)), o del sognatore che in un luogo altro, in un altro tempo (ancora, inevitabilmente), quello del sogno. Essendo Arca russa non altro che la rèverie di un cinema che sogna se stesso (ri)producendosi e prodigandosi in un interminabile flusso di immagini.
Un procedere sinuoso che possiede non solo la fluidità dell’eterna illusione di un tempo che scorre pur essendo immobilizzato nel suo essere già stato, ma anche l’incanto di una musicalità che si annuncia molto di più e molto prima delle sequenze orchestrali del finale, in cui ballano le immagini, gli spazi, i tempi, i colori, i fantasmi che abitano l’intemporalità e l’aspazialità di quelle sequenze, e noi con loro, o quantomeno i nostri occhi. Un senso di musicalità accompagnato, condotto, per non dire inaugurato dalla presenza melodica della voce del regista, unico soggetto, forse, di questo ininterrotto sprofondamento “soggettivo” nel regno delle immagini, da cui non possiamo far altro che essere inghiottiti.
Un cinema dunque dove questa musicalità si fa elegia (non è certo un caso che Sokurov inauguri tutta una serie di opere che sono vere e proprie meditazioni visive e visionarie, e che le chiami per l’appunto Elegie), ovvero canto mesto e tuttavia dolcissimo nel suo struggimento per un qualcosa che non è più, un qualcosa che è divenuto immagine, che è affidato all’ambigua dimensione del cinema, al suo gioco crudele e sublime di presenza-assenza. Uno stile elegiaco che si affida ad una sorta di costruzione (già) musicale dell’immagine, che nello stesso tempo canta la bellezza delle cose e ne intona un epicedio funebre per la loro irrimediabile perdita. L’elegia di uno sguardo che nello stesso istante in cui si apre sul mondo incantato delle immagini (il cinema), dischiudendone illimitati orizzonti di senso, nella creazione di una sfera fantasmagorica (il teatro, le maschere, il labirinto di figure immaginarie, la museicizzazione di un sogno di pittura, e poi i regnanti, le uniformi, la cerimonia, le danze..), relega l’oggettualità del reale nel regno delle ombre e dei fantasmi dell’essere. Tra il non più dell’oggetto e il non (più) ancora del cinema. Elegia del viaggio (come s’intitola un suo lavoro, preparatorio diremmo, del 2001, Elegia dorogi), ma anche viaggio dell’elegia, nell’elegia, in questo incedere musicalmente triste del suo cinema, in cui ogni momento esteticamente felice diviene anche cupa meditazione di una perdita.
L’arca, come l’Hermitage, come l’Overlook Hotel, come la residenza di Marienbad, come la base orbitante di Solaris, è allegoria eminente del cinema stesso come dominio delle immagini cui già sempre apparteniamo come vedenti, come inevitabili spettatori, e che già sempre ci appartengono come tracce di un sostrato mnemonico , come sur-place immaginifica atemporale, in cui dovremo navigare per sempre e vivere per sempre.

Una visita guidata ai tesori dell’Hermitage. Un viaggio nel tempo nei fasti dell’Impero. Una riflessione critica sull’arte. Un’esortazione a conoscere il passato (“Tutti possono conoscere il futuro, ma il passato non lo conosce nessuno”). Un ripasso veloce della storia della Russia. Un atto coraggioso, reazionario, di nostalgia nei confronti di un’epoca dove, se non altro, c’era bellezza fra dipinti, costumi, porcellane pregiate, cibi sopraffini, palazzi maestosi, musica soave, eleganza di figure umane. Sokurov adotta il nostro sguardo in soggettiva e segue lo straniero per crearne un altro, esterno e critico: un uomo misterioso (il marchese de Custin, in realtà) che, al contempo, è in visita soprannaturale e appartiene a questo passato. Prima sono in disaccordo nel valutare il fasto del palazzo e le manie dei russi di “copiare” l’arte europea; poi, entrambi sono conquistati: lo straniero non ha nessuna intenzione, ai tempi di Nicola e Anastasia, di continuare il viaggio. Che c’è dopo? (sottinteso: di bello?). Io resto qui. Sokurov, il regista, l’autore (noi) sembra intenzionato a proseguire verso il futuro, invece si sofferma a lungo in mezzo ad una folla di figuranti in costume (centinaia, e non uno sguardo a vuoto) che esce…di scena dopo l’ultimo ballo del 1913. Scopre il mare intorno ad un’arca che preserva per sempre tale bellezza. La docufiction con messinscena palese immerge del tutto, come si fosse in un museo, nel passato che rappresenta. Il tono è da commedia (lo straniero di Sergei Dreiden è inopportuno e spassoso), la sfida tecnica girare tutto in un unico piano sequenza in 33 set: un miracolo dell’Arte intrapreso in un solo giorno (tanto gli era stato concesso dalla direzione del museo), andato a buon fine alla quarta prova con gli attori e con l’ausilio di una maneggevole camera digitale ad alta definizione.