TRAMA
Dopo la morte della moglie Zoe, Sal sprofonda nel lutto. La sorella Ebe lo incoraggia a provare Another End, un’innovativa tecnologia che, per alleviare il dolore della perdita, permette di trapiantare brevemente in una persona viva i ricordi, i pensieri e la personalità di un morto.
RECENSIONI
All’inizio pensavo che il film di Messina fosse influenzato da troppe cose: la storia sembra rimasticare, variandola, l’idea centrale di Alps di Lanthimos; la distopia e il modo di affrontarla in chiave esistenziale ha l’algido stile di Equals di Doremus; la concezione sembra rispondere alle logiche di uno dei peggiori flagelli seriali degli ultimi anni, quella collezione di pitch decontratti in storie (per le quali perdi interesse dopo averne compreso il criterio, quindi dopo cinque minuti al massimo) che è Black Mirror. Se a questo si aggiunge che il finale che induce a una rilettura complessiva del film può suonare come una trovata à la Shyamalan fuori tempo massimo, ci stava l’avvalorare l'impressione subitanea di un’opera datata che faceva di tutto per farsi detestare, che quasi ricercasse questo scopo programmaticamente, provocatoriamente.
Ovviamente non è così, il film di Messina si rivolge correttamente al pubblico e non a una platea ristretta di critici pronti a usare il bilancino e a misurare il film secondo il metro delle proprie visioni pregresse. Tanto più che, ribadisco, si è trattato di una prima impressione, smentita, nell’addentrarsi del film, dalla equilibrata progressione narrativa e dalla consapevolezza che se la storia ha un peso, in Another End ne ha uno molto più rilevante il modo di portarla sullo schermo. Messina, come nel precedente L’attesa - un altro film sulla faticosa elaborazione del lutto - sembra interessato in primo luogo al modo di rendere la narrazione per immagini, anche in questo caso, come nel precedente, tendendo a rivendicarne il primato: in questo senso è interessante come riesca a intrecciare il suo virtuosismo visivo all’incedere quasi ipnotico del racconto (che non disdegna, al di là della rivelazione finale, letture ulteriori - lancio lì una pista incestuosa -), esprimendo un meritevole atto di fiducia nel lavoro della macchina da presa, nell’atmosfera che va a dipingere, nel modo di mettere in scena ambienti e corpi, nell'uso espressivo di luci e cromie, secondo le istanze di un cinema quasi sensoriale (ho pensato a Refn, a un certo punto, anche se il lavoro sullo score non ha la stessa calibratura, anzi), che non teme silenzi, pause, sequenze criptiche e in cui l’estetica - lungi dalla mera cosmesi - aspira a fare senso. C’è sana ambizione, insomma, e questo è un merito, anche se il risultato non le tiene sempre testa.