TRAMA
Il dottor Stephen Strange è il miglior neurochirurgo del mondo. A seguito di un incidente automobilistico compromette l’uso delle sue mani ed è disposto a tutto per rimediare.
RECENSIONI
Il solito film Marvel un po’ diverso dal solito. La genesi della supereroizzazione è quella consueta (normalità – evento traumatico – superamento trauma con acquisizione di poteri) così come il contrasto tra le tematiche – ingenuamente - larger than life (la fine del mondo da sventare) e l’ironia che tutto stempera e tutto ridimensiona, all’insegna di una sana paraculaggine. Però, stavolta, si abbandonano i binari della fisicità per inoltrarsi nel metafisico (benché non manchino pizze e sganassoni). La natura magica dei superpoteri di Doctor Strange permette a Derrickson di imbastire un armamentario visivo/narrativo abbastanza nuovo, rispetto agli standard marveliani, tutto incentrato sulla manipolazione spazio-temporale. Le città si piegano e si arrotolano su se stesse, il tempo scorre a ritroso mentre gli eroi avanzano in direzione opposta, fino a che le due linee cronologiche si incontrano (Memento), in un tripudio sfacciatamente nolaniano. E’ davvero difficile, se non impossibile, non riconoscere Batman Begins come punto di riferimento per tutta la prima parte e, ovviamente, Inception come nume tutelare di gran parte della seconda. Nel bene e nel male. Perché anche le parti in cui i protagonisti supercazzolano spiegoni interminabili nel mezzo dell’azione sono nolaniani fino al midollo. Sul finale, si affaccia qualche eco videogiocosa: l’End of Game Boss ricorda un po’, tra i mille altri, l’Andross di Star Fox, anche se, di nuovo, la soluzione, la tattica per sconfiggerlo diverge un po’ dal Canone e si risolve in un espediente autoironico alla Groundhog Day. Doctor Strange risulta, insomma, l’ennesima variazione-sul-tema-Marvel, non così “estrema” alla Deadpool ma concettualmente assimilabile ai Guardiani della Galassia e Ant-Man. Con l’aggiunta di un armamentario visivo e (conseguentemente) narrativo non originale in senso assoluto ma sicuramente fresco in ambito cinecomic.

Il Doctor Strange, partorito da Stan Lee e Steve Ditko, è fra i più affascinanti e “strange” personaggi dell’universo Marvel: nato nel 1963 e diventato il principale raccoglitore della moda delle filosofie orientali, della psichedelia e dell’alternativa alla via occidentale, è spesso protagonista, con testi anche complessi, di dimensioni parallele, battaglie dello spirito (non a caso, Benedict Cumberbatch interpreta anche la nemesi digitale Dormammu), multiverso e conflitti fra corpi astrali. Per portarlo al cinema, dopo un dimenticabile film Tv del 1978, Scott Derrickson rinuncia all’approccio adulto e filosofico come fece nel suo The Exorcism of Emily Rose, anche se sulla carta era il più adatto per l’operazione, da laureato in teologia che ama il soprannaturale e il lato spettacolare. Il risultato è discreto e nella media delle produzioni Marvel, dove si è serializzata anche l’innegabile qualità e non si osa più. Tutto da manuale: Cumberbatch perfetto per la parte (in gioventù ha pure passato un anno in un monastero indiano nel Darjeeling, per insegnare inglese), grandi nemici e pericoli, effetti speciali che distorcono lo spazio e le architetture delle città alla Inception (verso Escher e Dalì, esaltato dal 3D), viaggi in tunnel spaziotemporali (gli autori preferiscono la fisica quantistica all’inspiegabile magia), pizzichi di sentimento e commedia, una origin story aggiornata (l’antico tibetano diventa antica: bel personaggio per Tilda Swinton; il villain Mordo che inizia come alleato), un racconto intrigante (il produttore Kevin Feige e Derrickson hanno citato, come ispirazione, la miniserie a fumetti del 2006 “Il giuramento”).
