Commedia, Drammatico, Netflix

RED ROCKET

Titolo OriginaleRed Rocket
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2021
Durata128'
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Trovandosi in difficoltà a Los Angeles, l’ex pornostar Mikey Saber decide di tornare nella città natale di Texas City, dove nessuno sembra particolarmente entusiasta di rivederlo.

RECENSIONI

La provincia profonda americana (Texas, nientemeno) non è mai stata meno luogo dello spirito del Messico. Se su quest’ultimo si butta da decenni Hollywood per farne l’esotica incarnazione di tutta la libido e la trasgressione che la civiltà esclude per funzionare, sulla provincia profonda americana il cinema indipendente americano “alla Sundance” si butta da decenni in quanto incarnazione di quell’oggetto non meno fantomatico che sarebbe “la realtà dietro l’immaginario”.
Non accontentandosi più, fortunatamente, della vernice rosa del pessimo Florida Project, Sean Baker va a Texas City (che dal Messico dista non più di mezza giornata di macchina) ben consapevole che ormai la provincia sognata dal cinema indipendente americano “alla Sundance” è ormai diventata per conto suo una concrezione mitologica. Baker lavora su questo, non su qualche pretesa di ricostruzione sociologica: prende lo stra-abusato mitologema che più di tutti definisce quel cinema, visto un milione di volte (un quasi-non-più-giovane torna al paesello dopo qualche successo nella metropoli che non basta a far svoltare un’esistenza, e vi trova una ragazzetta che potrebbe portarlo a redimersi), e lo veste di una visualità in controtendenza rispetto a come viene generalmente trattato quel mitologema, sulla base della quale la realtà e l’immaginario trovano una disposizione, per così dire, ortogonale. Il risultato è simile a quello che potremmo immaginare su Vincente Minnelli, all’inizio degli anni Sessanta, si fosse trovato per un equivoco a dirigere lui Elmer Gantry invece di Richard Brooks. O meglio, un Soderbergh a cui viene sottratto marxismo e post-marxismo (quindi, di fatto, un anti-Soderbergh: ciò che Baker è del tutto evidentemente).

Il quasi-non-più-giovane in questione è in effetti un ex pornostar: uno insomma che nel settore che più di tutti vive nel collasso tra reale e immaginario (il porno) ci ha fatto, nelle retrovie di Hollywood, una mezza carriera. Senza un soldo, brutalmente malmenato dalla vita, Mikey (interpretato, peraltro in maniera assai convincente, da una specie di Andrea Pezzi e stelle e strisce, VJ a MTV negli anni Novanta e poi boh o quasi) riesce a farsi ospitare dall’ex moglie nella parte (ormai maggioritaria) di Texas City che più assomiglia a uno slum unicamente in virtù della parlantina, dell’attitudine gagliarda e propositiva al di là di qualunque buon senso e perennemente ai confini della truffa. Ma per essere truffa, o premeditazione interessata, bisognerebbe che Mikey fosse quantomeno “qualcuno”, che avesse insomma un minimo di consistenza psicologica. Fortunatamente, non è così: impermeabile a qualsiasi spessore psicologico, Mikey non è nulla se non l’immagine che a ogni istante dà di se stesso. Se ha fini o obiettivi, essi scompaiono, insieme a qualunque cosa possa essere vagamente chiamata “personalità”, dietro quest’immagine. Se Mikey è un bugiardo manipolatore patologico, non è (come hanno avuto modo di ingannarsi tanti recensori americani) perché è un bugiardo manipolatore patologico, ma perché al di là della compulsione automatica a esserlo non può essere nulla, quale che sia la finalità.
L’unico obiettivo che un po’ si pone è quello di fare sfondare la quasi-diciottenne acqua e sapone del donut store accanto (e quindi immediatamente insuperabile fantasma pornografico) nell’industria del porno. Interesse economico? Predazione sessuale? Amore? Istinto paterno mal riposto? Tutte queste cose insieme, ma molto più probabilmente nessuna: mera coazione a ripetere, a tornare dove è già stato.

Del resto, Baker stesso, nei neo-slum di Texas City, a contatto con una popolazione “white trash” regolarmente ipnotizzata dallo schermo televisivo, trova tutto tranne che un presunto “grado zero” della realtà degradata. Trova invece una realtà già in partenza mediata da innumerevoli cliché visivi e fotografici, immediatamente avvertibili ogni volta che inquadra un diner, un centro commerciale, un acquitrino, una rete di recinzione. L’onnipresente, gigantesca raffineria lì accanto non è segno di un certo ecosistema socio-economico; non che un settore produttivo non ci sia, è che non è più al centro del sistema (non è che ci sia solo lo spaccio, è che i suoi clienti sono soprattutto gli operai), e se dunque è soprattutto l’immateriale (la droga) a far girare l’economia, tutto l’esistente non è che installazione permanente di se stesso, raffineria in primis. A contatto con questa realtà installazione di se stessa, Baker prova a vivificarla con un uso non banale del 16mm: ipersaturando i colori senza perdere in realismo, muovendo la macchina con perizia senza perdere in rigore compositivo, cesellando una spina dorsale ritmica (alternanza sapiente tra scene brevi e lunghe, nessuno strascicamento mumblecore) molto più hollywoodiana che no.
Al netto di qualche goffaggine drammaturgica che ritarda questa “rivelazione” giocando come il gatto col topo (l’ex moglie che sembra accennare a un ritorno di fiamma e invece no; un implausibile incidente stradale che fa intravedere il castigo e redenzione moralista e invece no), il movimento del film si compie solo con la scoperta che la realtà di un sistema sociale in cui al di là del circolare dei soldi avvitato su se stesso non c’è nulla di nulla (tantomeno legami sociali), e l’immaginario allo stato più puro possibile, continuano a rimanere distinti senza potersi separare. La loro sintesi può solo fallire perché già garantita in partenza: e nello spazio infinito delle infinite possibilità di intersecare l’una con l’altro e viceversa, Baker sguazza come un bambino.