Biografico, Drammatico

ZONA D’OMBRA

Titolo OriginaleConcussion
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2015
Durata123'
Sceneggiatura
Tratto daliberamente dall’articolo Game Brain di Jeanne Marie Laskas (GQ - settembre 2009)
Scenografia
Costumi

TRAMA

Nel settembre 2002 il neuropatologo nigeriano Bennet Omalu è chiamato all’autopsia di Mike Webster, ex star del football trovato morto a cinquant’anni. Analizzando il suo cervello, il dottore rileva che l’uomo era vittima di una malattia degenerativa dovuta ai colpi alla testa riportati sul campo. La scoperta della CTE (encefalopatia cronica traumatica) innesca un duro scontro con la lega di football professionistico.

RECENSIONI

Partendo dall'articolo Game Brain di Jeanne Marie Laskas, Peter Landesman non percorre la storia di Bennet Omalu in modo 'oggettivo', ovvero concentrandosi sul fatto in sé, ma assume totalmente la prospettiva del protagonista che combatte la sua battaglia: noi siamo Bennet. Omalu/Will Smith è un novello Erin Brockovich che sfida il colosso NFL, ma il riferimento tematico principale è The Insider di Michael Mann: lo scontro con le multinazionali del tabacco viene apertamente citato. L'uomo contro il gigante è dunque il punto della questione in Concussion, come presto dimostra la rivelazione e la ricostruzione visiva dei traumi, sbrigata nell'associazione di pochi fotogrammi: non rileva la sostanza della patologia, ma solo l'impresa di chi l'ha scoperta. Bennet è il bignami dell'eroe: cattolico praticante e scienziato rigoroso, egli interroga i corpi nel suo obitorio finché non restituiscono la verità, senza alcuna eccezione, e quando arriva la salma di un giocatore di football applica lo stesso metodo. Non ha dubbi, non si tormenta, fa' la cosa giusta. Il paradossale stupore si applica piuttosto alla ricezione pubblica della scoperta, non capisce perché la Lega lo avversi. Bennet è l'archetipo nerd: lavora fino a notte fonda, non si distrae, non ha rapporti con l'altro sesso fino all'incontro con Prema/Gugu Mbatha-Raw che sarà ovviamente decisivo.

Nelle pieghe della vicenda di Omalu, in realtà, è sottintesa una contraddizione intima alla società americana: l'amore sincero per lo sport nazionale, praticato fin da bambini, e il suo indubbio potere spettacolare contro il tacito accordo a distogliere lo sguardo dai possibili rischi, perfino se documentati. Da una parte l'America e il sogno (realizzato) del football, dall'altra l'occhio pigro della nazione che non focalizza l'ombra, spalancato all'improvviso da un 'estraneo' non americano che riceve in cambio l'oscurantismo. Ma il regista non problematizza la questione e, con la stessa evidenza di Parkland, preferisce costruire il racconto sulla mitizzazione dell'eroe. E' così che il dubbio vero, il punto interrogativo emerge solo in rari tratti come nel finale, nella sintesi visiva dello sguardo di Bennet: egli osserva i volti solari dei giovani al campo e subito dopo 'vede' la preparazione dell'ennesimo scontro, in un'unione delle istanze intricata e per un attimo davvero problematica. Per il resto, nonostante alcuni timidi tocchi d'ironia nella figura del dottor Wecht/Albert Brooks, Zona d'ombra resta un rigido film a tappe saldamente ancorato al suo argomento: il caso esplode e la temperatura drammatica sale, scatenando la reazione muscolare dell'NFL, ma la dinamica del racconto si fa ancora più scontata e prevedibile, dalla collaborazione con la talpa nel sistema al falso speech concesso al protagonista, fino all'avvitamento finale che erge il suo monumento.

Will Smith esegue l'eroe che gli compete e, quando può, sfodera un sentimentalismo strappalacrime e 'muccineggia' senza pietà, ma in un contesto privo della consapevolezza di genere di Muccino (il dialogo col figlio nel grembo, semplicemente 'brutto'). Alec Baldwin, Albert Brooks (il migliore) e Gugu Mbatha-Raw si limitano a ruoli di contorno, decorativi come si addice all'eroe. Il titolo italiano, infine, banalizza il secco e scientifico Concussion, termine medico che indica la più nota commozione cerebrale, qui manipolato per evocare un generico lato oscuro (zona d'ombra del cervello? del sogno americano?).

E' un film di denuncia che si presenta come tale, quello di Landesman, in questo trasparente e quindi onesto: il fatto è che, guardando alla ricostruzione dell'inchiesta nel cinema americano oggi (naturalmente Spotlight, ma anche il meno premiato Truth), con la solita storia si poteva fare (molto) meglio.

Will Smith è abbonato a ruoli neo-capriani, in cui impersona l’uomo medio americano retto, onesto e solo contro le storture di un grande paese da raddrizzare. Capra viveva altri tempi, era anche feroce e il sogno americano non lo sbandierava, era un indotto dell’uomo probo, portatore di luce per cogliere le zone d’ombra (complimenti al titolo italiano). Peter Landesman (anche sceneggiatore) non coglie e rende ‘hollywoodiano’ il vero dottor Omalu, incontrato durante una delle sue inchieste giornalistiche, felice di diventare sogno archetipico in film e di preparare il divo protagonista a interpretare se stesso. Il regista fa quanto di peggio potesse, in meccanismi manipolatori desueti: Smith è lo scienziato/uomo perfetto, premuroso e adorabile con la compagna (la figura femminile è mero oggetto d’accompagnamento, atto a sostenere la figura del grande eroe), eccentrico nel modo di lavorare perché geniale. Fanno parte della formula la moglie bellissima, le macchiette adorabili (Albert Brooks) e varie ed eventuali faziosità per trasportare il messaggio. Ad un certo punto, però, la concussione del titolo originale va fuori misura, dalle forzature nei collegamenti (l’arresto di Brooks e le ricerche di Smith; la perdita del feto e l’auto al seguito che innervosisce la moglie) alla schematicità della retorica sfacciatamente trasparente, con la sceneggiatura che mette in bocca ai personaggi discorsi sulla grandezza dell’America (paragonata al Paradiso) e che disegna le caratteristiche degli uomini che la fanno grande, accentuando i concetti di patria chiesa e famiglia.