Sentimentale

TWO LOVERS

Titolo OriginaleTwo Lovers
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2008
Durata110'
Montaggio
Scenografia
Musiche

TRAMA

Leonard, dopo essere stato abbandonato dalla fidanzata, ritorna a casa dai genitori, nell’attività dei quali è impiegato. Sandra, la figlia di un prossimo socio d’affari del padre, si innamora di lui. Intanto Leonard s’invaghisce di Michelle, che ha una storia con un uomo sposato…

RECENSIONI

La finestra di fronte, quella dell’appartamento di Michelle. Una panoramica: riflessi nello specchio Leonard e Sandra fanno l’amore. Quando Sandra se ne va, la mdp è sul corpo di Leonard. Poi, accompagnando i suoi occhi, rivolge i nostri a quella finestra, nuovamente, specularmente. La mdp disegna un circolo, sospeso emotivamente tra l’interno e l’esterno del soggetto. Two Lovers è pacata e struggente vertigine dello sguardo: geometricamente elegante inscrive i personaggi nell’ambiente, ci avvicina al protagonista, fingendo per pochi attimi di sovrapporre il nostro sguardo al suo, con scarti che significano pudore, salvo poi regalare soggettive all’amore[1], salvo poi fremere d’eccitazione insieme a Leonard, prima della fuga; e poi nel finale ritrovarsi ad avvolgere i personaggi nell’abbraccio di uno sguardo, nell’esattezza di movimenti e raccordi che sanno di determinismo e, al contempo, vibrano rassegnati di dolorosa compassione sui volti dei protagonisti. La macchina/cinema di James Gray danza fluida, s’affida al dettaglio, a impercettibili modulazioni prossemiche, a ristrette e composte gamme recitative: trattiene la tragedia nell’ordinario, si sottrae al lirismo, elude le urla, le sottolineature, si consacra alla rappresentazione del quotidiano, del banale[2]; restituisce la straziante, splendida e miserabile piccolezza della vita, coglie negli impacci dei personaggi la rete del non detto che struttura la realtà, e così l’innato e vano impulso a elevarsi al di fuori di essa, vuoi concentrando il proprio sé intorno al biglietto da visita di un supposto talento, vuoi scagliandosi sull’onda dell’utopia amorosa, aspirando a tesserla cinematograficamente[3]. E’ un film di sguardi, Two lovers , ed è un cinema che sa guardare, quello di James Gray: un cinema che illumina con amorevole rassegnazione l’oscura complessità delle anime, i moti contraddittori dell’esistenza. Che conosce i limiti – imbarazzanti, dilanianti - della realtà, che sa del potere evocativo di un oggetto, della semplice e folle importanza del gesto simbolico[4]. Che sa del melodramma quotidiano e scruta per quanto possibile il vortice inestricabile di conflitti che lacera i personaggi. Che sa cos’è l’uomo, per davvero. Two lovers è il film che James Gray gira da quindici anni a questa parte[5]: il contesto urbano, l’ineluttabilità delle logiche familiari in contrasto con la volontà del libero arbitrio, lo scacco deterministico del caso, l’anima noir che annichilisce ogni anelito di fuga; e la cinefilia liquida che sommerge la narrazione, evitando di cristallizzarsi in citazione, l’implacabile leggiadria della regia, aderente, mai estremamente visibile, sempre magnificamente significante, la scrittura che cesella minuziosamente le sfaccettature dei personaggi, che dà parola al particolare, l’impeccabile direzione degli attori; e quell’afflato, profondamente umanista, suo malgrado fatalista. Le differenze sono ancorate al soggetto. Qui c’è un uomo affetto da disturbi di bipolarità, ci sono una bionda e una mora[6]: ma quello che sulla carta appare come stereotipo pericolosamente in bilico sul dirupo del ridicolo, vive, letteralmente, impresso su pellicola. Non è questione di realismo. E’ questione di intima verità. Andate e cibatevene tutti: quello che è racchiuso in Two lovers è, oggi, uno dei migliori cinemi possibili.

[1] La soggettiva viene regalata a Leonard, mentre segue con lo sguardo Michelle. E a Sandra, quando guarda le cicatrici di Leonard. Altre inquadrature potrebbero essere considerate soggettive, se non fosse per una serie di scarti che le imbastardiscono.
[2] Non è solo una questione di plot, di “familiarità” degli ambienti: si pensi al linguaggio dei personaggi, intriso di frasi fatte, di banalità, di concetti raggrumati in proposizioni stantie ed abusate, rubate ad altri e ripetute (ad esempio: Leonard sul terrazzo, mentre si dichiara, ripete sostanzialmente a Michelle quel che a lui aveva detto Sandra).
[3] Quanto cinema aleggia intorno al personaggio di Michelle, a quelle finestre, alla macchina fotografica che la immortala, a quel seno, alle note di Henry Mancini… E quanta voglia di cinema nei desideri di Leonard.
[4] Una fotografia girata all’ingiù e poi buttata, una tenda chiusa per dimenticare. E un film, “Tutti insieme appassionatamente”, che si fa tassello di un’attitudine, di un carattere, didascalicamente, verosimilmente.
[5] E sì, la discrepanza di giudizio critico che separa l’accoglienza riservata a questo film da (quantomeno) quella riservata al precedente apre un vaso di Pandora di considerazioni che, no, non mi interessa in questa sede.
[6] L’una e l’altra, opposte e complementari: il certo e il possibile, il reale e il virtuale, la vita e il cinema. Le premesse si aprono a un dolente balletto dalle pulsazioni hitchcockiane: se Sandra è proiezione del dovere morale verso la famiglia, Michelle lo è del volere di Leonard, della sua rinascita – vedi incipit-, donna che visse due volte, ritorno di ciò che se ne è andato.

Famiglia, lavoro, comunità: tre cerchi concentrici che si stringono attorno a Leonard (un Joaquin Phoenix tanto disfatto quanto tormentato), circoscrivendone inesorabilmente l’esistenza. Una violenza premurosa e affettuosamente crudele che lo stritola in una morsa da cui è pressoché impossibile sottrarsi: tutto è già programmato per lui, il suo presente e il suo futuro (nonché il suo passato: a mandare a monte il matrimonio con l’ex fidanzata sono state iperprotettive analisi mediche) non sono altro che piani studiati a tavolino dai genitori o dai futuri s(u)oc(er)i d’affari (quanto suona soffocante e ricattatorio il pistolotto responsabilizzante propinatogli dal padre di Sandra). Rompere il cerchio, per quanto lacerante e autolesionistico possa risultare, diventa la sola ipotesi di autonomia, la sola rivendicazione di indipendenza a portata di mano. Con tagli orizzontali (le cicatrici sui polsi) o atti verticali (il tuffo dell’incipit), Leonard ha provato e prova a liberarsi dalla morsa che lo attanaglia: l’apparizione di Michelle (Gwyneth Paltrow, femme fatale se mai ve n’è stata una) si offre ai suoi occhi increduli come provvidenziale traiettoria eccentrica (entra in scena da un corridoio e da un corridoio si dilegua). Figure geometriche inconciliabili: il cerchio sociale dei condizionamenti, la retta secante dei sentimenti.
In questo disegno incoerente, la dimensione del mélo si fonde con quella noir: il progetto di sovversione amorosa si piazza necessariamente sotto il segno del segreto, dell’inganno: verso se stesso ancor prima che verso gli altri. Leonard non può non sapere che la relazione con Michelle è destinata al fallimento: troppo incredibile e gratuita per avere speranze di riuscita. Eppure, nonostante gli innumerevoli segnali contrari (la fascinosa sicurezza di Ronald, l’instabilità emotiva di Michelle, la loro incompatibilità fisica), vuole crederci, vi si aggrappa con disperata, testarda tenacia. Dietro la porta chiusa della sua camera o nell’ombra di quella della camera di Michelle, Leonard coltiva un amore oscuramente impossibile, ma intimamente vero proprio perché tenuto all’oscuro, illecito. Il suo amore si dà solo se lontano dagli spazi familiari, dallo sguardo teneramente inquisitorio dei genitori (inequivocabile la natura del suo disagio quando bacia Sandra davanti alle foto di famiglia). È un sentimento che può germogliare solo altrove, irrimediabilmente condannato all’estraneità: le sue lacrime qui e ora davanti a Sandra (Vinessa Shaw, magnificamente sotto le righe) nel finale scaturiscono da una sofferenza letteralmente indicibile, pena la distruzione di ogni residuo affettivo. Non è un caso che l’evento immediatamente precedente alla mancata fuga con Michelle a San Francisco (esattamente dall’altra parte degli Stati Uniti rispetto alla New York familiare) sia il dialogo-confessione con la madre Ruth (Isabella Rossellini). Dal punto di vista simbolico, la rivelazione del segreto disinnesca il potenziale liberatorio dell’evasione dallo spazio domestico. Leonard ricade nuovamente sotto l’ala protettrice dei genitori, la fuga non ha più ragione d’essere.
E quanto siano i luoghi esteriori alla dimora familiare ad alimentare l’amore in fuga di Leonard Two Lovers ce lo mostra in continuazione: il pianerottolo davanti a casa per il primo incontro, il pedinamento fino alla stazione della metropolitana di Brighton Beach (nella penisola di Coney Island) con la successiva passeggiata per le strade intorno a Central Park, la cena nel ristorante di Manhattan, la serata passata in discoteca, gli appuntamenti clandestini in terrazza. Lo spazio familiare e lo spazio dell’amore sono fisicamente conflittuali: Michelle entra in casa Kraditor come un corpo estraneo e l’entrata in scena del padre Reuben, il cui nome è pronunciato severamente da Leonard, la fa fuggire a gambe levate. Gray esalta visivamente questa inconciliabilità: gli basta il quadrante della vetrata di un ristorante in riva al mare per schermare e proteggere Leonard dagli sguardi sospettosi di Sandra. Ancora: i vetri delle finestre dei due appartamenti, l’obiettivo della macchina fotografica. L’amore di Leonard si pasce di distanze. Anzi: è esso stesso una distanza. E l’ultimo carrello all’indietro la reca silenziosamente in sé.

La bruna e la bionda, la prigione etica e il vezzo della visione, la distanza che separa l’impasse dall’aspirazione, il sentire e il vedere come due finestre opposte di uno stesso palazzo; l’amore che visse due volti, l’amore come sguardo possibile sul non-possibile. «Se non ci fosse stato lui, allora forse...». Eppure, lui c’è sempre stato. Two Lovers.
Ciò che Leonard, il protagonista, prova per Michelle è un sentimento affannato come un primo amore: fulmineo, impacciato, misterioso, disgraziato, totale; un sentimento di cui non si può parlare nonostante non ci sia altro da dire. Un sentimento, che ama e desidera il vedere ancor prima della cosa vista, ancor prima dell’essere ri-visto. Un sentimento che non si occupa di tutto il resto, di cui è solo uno spento riflesso.
Il cinema di James Gray scopre questo sguardo. La macchina da presa “anima” Michelle (sorta di essenza della lady cinematografica), la sfida ad avere (forse almeno una volta consapevolmente, lassù sulla terrazza) «l’aria di qualcosa che ne diventa un’altra sotto i tuoi occhi»[1]; quando altrove, tutt’intorno, il mondo per abitudine non si sposta. Le cose (tutte le cose, come la città come le parole come le persone) proseguono come innocui dettagli trascinati, pronti a sostituirsi con spicciola mediocrità a qualche vuoto o imbarazzo del reale. Così una fotografia (anche quella non ancora scattata) può prendere il posto della realtà, un’immagine quello di un’altra. Finché l’occhio non le riconosce più, e le lascia scorrere per potersene andare a fermarsi davanti a una finestra illuminata, proprio come fa un amante. Lì, in attesa, ogni cosa potrebbe ancora cambiare. Perché cambiano le cose che si amano. Come le cose del cinema.

[1] Sono pressappoco le parole che Ballin (George Macready), primo marito di Gilda (Rita Hayworth in Gilda, di Charles Vidor, 1945), usa per definire la natura della donna.