TRAMA
Bree, già Stanley, è in attesa dell’operazione che la renda fisicamente donna. Tutto è pronto, ma dal nulla compare un giovane sbandato che sostiene di essere suo figlio
RECENSIONI
Road movie piatto, romanzo di formazione convenzionale nella forma che rivendica un transprimato tematico, il film d’esordio di Duncan Tucker non osa, rimanendo invischiato in un compiacente reticolato fatto di sorrisi amorevoli, di maledettismi all’acqua di rose, di premure da madri badesse, facendo addirittura sorgere il sospetto che tanta umana pietas nei confronti di un essere “in fieri” non sorga dal profondo rispetto per le libere scelte altrui, ma da una pelosissima e vagamente cattolica pseudocomprensione delle “disgrazie” del “fratello”. I numerosissimi riferimenti al Cristo consolidano il dubbio, oltre a palesare il cerchiobottismo di fondo (ogni “trasgressione” è subito detersa nell’acquasantiera e dunque ripulita ed anestetizzata, giusto per non infastidire troppo il pubblico americano di tutte le chiese e confessioni) e la dubbia morale da pulpito (l’“anormalità” va accettata soprattutto se destinata ad essere cancellata, anche perché siamo tutti figli di Dio…). La sceneggiatura, di cui è responsabile lo stesso regista, inanella una serie infinita di banalità e di ovvietà, sfrutta narrativamente tutte le “anomalie” del caso (dal modo di urinare in giù), collocando laddove ci si aspetterebbe tutti gli snodi cruciali del viaggio, che conducono alla tanto attesa “scena madre” della confessione, che tuttavia arriva troppo tardi, quando l’interesse è già svanito. Si attende vanamente un sussulto, una deviazione fuori programma. Nulla di tutto questo. Anche la parentesi tra le amiche trans è telefonatissima, funzionale più al perpetuarsi dell’equivoco e del gioco della menzogna padre/figlio che alla tanto auspicata apertura ad un mondo “altro”. Privo di coerenza, amalgama di realismo e grottesco, stilisticamente prossimo ad uno sceneggiato televisivo, il film toppa clamorosamente nella caratterizzazione della famiglia della protagonista (madre psicotica e possessiva cesellata seguendo le direttive di un manuale di psicopatologia del quotidiano, padre passivo, sorella sfigata, cane onanista), si concentra nella trattazione purtroppo superficiale dell’iter psicologico e fisico di quest’ultima “dimenticandosi” del figlio, che rimane una figura appena abbozzata di cui non si riescono ad afferrare, proprio perché mal concepito, le reali motivazioni che determinano il suo modus operandi. Restano l’impegno della Huffman, già casalinga disperata e il bel faccino di Kevin Zegers. Troppo poco. Il recente 20 centimetri era ugualmente ruffiano ed ammiccante, ma sicuramente più vitale.
Donna non si nasce, si diventa.
Simione De Beauvoir, Il Terzo Sesso
Il genere, cioè quella poderosa costruzione culturale, sociale, linguistica, economica e perfino epistemologica edificata sul dato biologico della differenza sessuale, è stato l’oggetto della riflessione più radicale che la filosofia del secondo Novecento ha conosciuto: dallo studio pionieristico di De Beauvoir, ai proficui intrecci con la riflessione femminista e il movimento di liberazione sessuale, fino all’incontro con lo strutturalismo, il decostruzionismo e le neuroscienze, si è giunti a smontare l’impalcatura metafisica e ideologica del pensiero occidentale e il gioiello che quella costruzione vantava come massimo risultato, il soggetto e i suoi due sottoinsiemi, il maschio e la femmina. Ma quella che sul piano teorico è un’eccitante rivoluzione, sul piano esistenziale è una faticosa e lenta conquista (“Sono stato uomo e donna, e so cose che voi a sesso unico non potreste neanche immaginare”, dice un novello Tiresia al giovane Toby), sempre messa a rischio dalla forza di gravità delle convenzioni, dall’imprinting culturale, dalla tentazione di rassicuranti identificazioni.
È quest’odissea che l’interessante e diseguale film di Tucker visualizza, scegliendo come protagonista una donna transessuale che vuole recuperare al suo corpo il proprio autentico sesso (quello psicologico) e non cessa di appropriarsi – come facciamo tutti ma, a differenza di lei, con l’ovvietà ottusa dell’inconsapevolezza – di un insieme di segni (dunque di significati) che l’ordine simbolico assegna al puro dato biologico. A cominciare proprio dalla nozione di soggetto, come vediamo nella prima sequenza del film, quando Bree deve scoprire la certa identità che il sesso le nega in quella zona della gola dove si forma la voce, sequenza non a caso rievocata ma contraddetta nella bellissima scena in cui la protagonista ascolta al giradischi il lamento della Didone di Purcell; in seguito, la vedremo sempre sforzarsi di acquisire un comportamento più femminile, cioè di eliminare da sé le ultime tracce di una mascolinità certamente indotta dalla cultura, ma non più di quanto lo sia il suo opposto, quella femminilità – di stampo tradizionale, per giunta, essendo le donne di oggi meno connotate in tale direzione – a cui Bree cerca di adeguarsi in toto, dal modo di vestire e di camminare all’altezza fisica fino alla cura per un linguaggio pulito e vagamente sussiegoso, ma senza poter impedire che tracce dell’antica identità facciano capolino nei momenti in cui l’autocontrollo è minore.
Nel doppio attrito fra corpo e identità, e fra identità e comunicazione di sé, si colloca la “natura” di Bree; scomoda e drammatica, ma preziosa nella sua ambivalenza veicolata da un corpo misterioso – come ci viene ricordato, i nativi americani onoravano i transessuali come “persone dai due spiriti” – almeno quanto è destabilizzante e dunque pericolosa per ogni sorta di ordine costituito. Da tale natura multiforme e affascinante Bree vuole uscire, per acquistarne una più unilaterale e povera ma anche più rassicurante e accettata. Non a caso dirà “Non è curioso che la chirurgia possa risolvere un problema mentale?”. Lei lo crede, ma la realtà è più complessa e il “problema mentale” è anche l’infinita possibilità di modellare il proprio io che tanto spesso trascuriamo per ritrovarci, con le nostre aride certezze, a recitar la parte che crediamo assegnataci dalla Natura. Sarà il passato a invitare Bree a prendersi carico di quella ricchezza di possibilità e ambiguità di significati che non può essere sciolta da un intervento chirurgico.
Il nodo tematico è tracciato dal regista con intelligente leggerezza, nutrita di ironia (le sapide battute, l’arguta interpretazione gay de Il Signore degli anelli) che talora si muta in aperto e tagliente sarcasmo, non sempre accurato – anche se d’effetto – nella resa espressiva: in particolare, è fastidioso il cambio di registro, con una repentina virata verso il surreale e il grottesco, che si avverte di fronte alla famiglia della protagonista. Ma anche qui vi sono brevi momenti toccanti, come il confronto fra le sorelle o la conversazione notturna – in equilibrio perfetto tra sorriso e lirismo – fra i due protagonisti, e battute fulminanti (“siamo meno felici di quel che sembriamo” rivolta, con un subitaneo sguardo “in macchina”, direttamente al pubblico).
Lo scheletro diegetico del film è il viaggio che i protagonisti compiono da un capo all’altro degli Stati Uniti, costruendo progressivamente un rapporto fra padre/madre e figlio che è psicologico ma pure e primariamente corporeo e finanche sensuale (fino a sfiorare l’incesto); lo stesso viaggio geografico è in realtà compiuto attraverso il corpo dell’America. Un’America osservata con disincanto (le bandiere Stars and Stripes compaiono con perfida e comica invadenza perfino su un banchetto di prodotti indiani e dipinte su un muro di cinta) e con passione, ma senza incorrere nell’effetto cartolina che inquinava i panorami di Brokeback mountain, e avvicinandosi allo sguardo obliquo e malinconico di Jarmush (Broken flowers).
Ma è soprattutto la complessa realtà collettiva degli U.S.A. a emergere, stratificata e ricca di spinte contrastanti come lo è la sua conformazione geologica illustrata da Bree al figlio: una realtà fatta di tradizioni folk, di ufologia, di pensiero sciamanico, di popolazioni marginali e sapienti, di una carriera nel cinema hard come massima aspirazione di vita (“faccio quel che so fare” dirà Toby con dolorosa consapevolezza, quando vorrà esprimere i propri sentimenti in un gesto), delle canzoni popolari di Stephen Foster – la stupenda Beautiful Dreamer fatta intonare, con sottigliezza autoriale, a un nativo – del vivace spirito comunitario che anima i sottogruppi etnici o sessuali o religiosi (e la falsa identità di militante di una fantomatica Chiesa del Padre potenziale, inventata da Bree per non dover rivelare la verità al figlio, è fonte di un nuovo gioco di ruolo e di gustose frecciate satiriche); il rock e il country e il classico si fondono in una colonna sonora eterogenea per questo mosaico frammentario e seducente.
Resta da dire del quadro psicologico delineato nell’avvicinamento fra Bree e Toby; qui il regista viaggia su binari più convenzionali, con alcune forzature non necessarie come la vita anteatta del ragazzo inutilmente colorata d’orrore; ma l’iniziale estraneità, il fastidio reciproco, la maturazione della simpatia e della fiducia, le improvvise crisi, gli scontri, le offese e le scuse, la gelosia del ragazzo nei confronti di Bree viaggiano sullo schermo con fluida progressione, fino a una svolta inaspettata e tragica, e a un finale onesto e aperto a più possibilità, ma non privo di speranza.
Nella sua rielaborazione del mito dell’androgino, Platone collegava l’androginia al dato biologico; oggi possiamo leggere il mito come puro simbolo, e ripetere le parole del Simposio auspicando che la drammatica separazione fra le due metà dell’essere umano si possa ricomporre e tradurre in una unità superiore, per la quale l’antica umiliazione sia solo un amaro ricordo: Era allora l’androgino un sesso a sé, la cui forma e nome partecipavano del maschio e della femmina: ora non è rimasto che il nome che suona vergogna.
Lo scheletro diegetico del film è il viaggio che i protagonisti compiono da un capo all’altro degli Stati Uniti, costruendo progressivamente un rapporto fra padre/madre e figlio che è psicologico ma pure e primariamente corporeo e finanche sensuale (fino a sfiorare l’incesto); lo stesso viaggio geografico è in realtà compiuto attraverso il corpo dell’America. Un’America osservata con disincanto (le bandiere Stars and Stripes compaiono con perfida e comica invadenza perfino su un banchetto di prodotti indiani e dipinte su un muro di cinta) e con passione, ma senza incorrere nell’effetto cartolina che inquinava i panorami di Brokeback mountain, e avvicinandosi allo sguardo obliquo e malinconico di Jarmush (Broken flowers).
Ma è soprattutto la complessa realtà collettiva degli U.S.A. a emergere, stratificata e ricca di spinte contrastanti come lo è la sua conformazione geologica illustrata da Bree al figlio: una realtà fatta di tradizioni folk, di ufologia, di pensiero sciamanico, di popolazioni marginali e sapienti, di una carriera nel cinema hard come massima aspirazione di vita (“faccio quel che so fare” dirà Toby con dolorosa consapevolezza, quando vorrà esprimere i propri sentimenti in un gesto), delle canzoni popolari di Stephen Foster – la stupenda Beautiful Dreamer fatta intonare, con sottigliezza autoriale, a un nativo – del vivace spirito comunitario che anima i sottogruppi etnici o sessuali o religiosi (e la falsa identità di militante di una fantomatica Chiesa del Padre potenziale, inventata da Bree per non dover rivelare la verità al figlio, è fonte di un nuovo gioco di ruolo e di gustose frecciate satiriche); il rock e il country e il classico si fondono in una colonna sonora eterogenea per questo mosaico frammentario e seducente.
Resta da dire del quadro psicologico delineato nell’avvicinamento fra Bree e Toby; qui il regista viaggia su binari più convenzionali, con alcune forzature non necessarie come la vita anteatta del ragazzo inutilmente colorata d’orrore; ma l’iniziale estraneità, il fastidio reciproco, la maturazione della simpatia e della fiducia, le improvvise crisi, gli scontri, le offese e le scuse, la gelosia del ragazzo nei confronti di Bree viaggiano sullo schermo con fluida progressione, fino a una svolta inaspettata e tragica, e a un finale onesto e aperto a più possibilità, ma non privo di speranza.
Nella sua rielaborazione del mito dell’androgino, Platone collegava l’androginia al dato biologico; oggi possiamo leggere il mito come puro simbolo, e ripetere le parole del Simposio auspicando che la drammatica separazione fra le due metà dell’essere umano si possa ricomporre e tradurre in una unità superiore, per la quale l’antica umiliazione sia solo un amaro ricordo: Era allora l’androgino un sesso a sé, la cui forma e nome partecipavano del maschio e della femmina: ora non è rimasto che il nome che suona vergogna.e il classico si fondono in una colonna sonora eterogenea per questo mosaico frammentario e seducente.
Resta da dire del quadro psicologico delineato nell’avvicinamento fra Bree e Toby; qui il regista viaggia su binari più convenzionali, con alcune forzature non necessarie come la vita anteatta del ragazzo inutilmente colorata d’orrore; ma l’iniziale estraneità, il fastidio reciproco, la maturazione della simpatia e della fiducia, le improvvise crisi, gli scontri, le offese e le scuse, la gelosia del ragazzo nei confronti di Bree viaggiano sullo schermo con fluida progressione, fino a una svolta inaspettata e tragica, e a un finale onesto e aperto a più possibilità, ma non privo di speranza.
Nella sua rielaborazione del mito dell’androgino, Platone collegava l’androginia al dato biologico; oggi possiamo leggere il mito come puro simbolo, e ripetere le parole del Simposio auspicando che la drammatica separazione fra le due metà dell’essere umano si possa ricomporre e tradurre in una unità superiore, per la quale l’antica umiliazione sia solo un amaro ricordo: Era allora l’androgino un sesso a sé, la cui forma e nome partecipavano del maschio e della femmina: ora non è rimasto che il nome che suona vergogna.