TRAMA
Andy è cresciuto e sta per andare al college: che fare dei suoi fidi Woody, Buzz & Co? Soffitta o spazzatura?
RECENSIONI
A quindici anni dal film che ha cambiato la storia del cinema d’animazione, la Pixar torna sulla sua impresa più paradossale per celebrarla e perfezionarla come si conviene, con un instant classic. Il paradosso della trilogia sta nell’apparente testacoda forma contenuto: da un lato si tesse un’apologia del giocattolo tradizionale, da non riporre crudelmente in soffitta a tempo indeterminato, dall’altro si confezione un prodotto che pensiona il cinema d’animazione classico in favore del Nuovo Cinema Digitale (e, di fatto, Toy Story ha relegato in soffitta il vecchio cartone animato). Qualcosa non torna? Sì e no. Perché il terzo capitolo dà un senso al tutto. E in realtà, già Toy Story (1995) in sé non era, come vorrebbe la vulgata, un sofisticato esercizio di ipocrisia ma, semmai, il “nuovo” che avanzava (Buzz Lightyear/l’animazione in CGI) per affiancarsi pacificamente al vecchio (Woody/animazione classica) dopo un complicato periodo di transizione. I fatti hanno poi dato un senso più crudele all’operazione: non c’è stato affiancamento, l’animazione classica è sostanzialmente scomparsa e quella digitale regna incontrastata. Non solo. E’ diventata essa stessa “classica”. Toy Story 1 è ormai un “classico Disney”. E Toy Story 3 ne prende atto, cinematografando la complessità (anche nelle sue sfaccettature amare e malinconiche) della situazione. I vecchi giocattoli accettano il loro destino di pensionati coatti, l’idea della soffitta è diventata accettabile perché ineluttabile. Il cambiamento, l’avvicendamento, la fine sono un destino, non un dramma. Ed è in questo senso che Toy Story 3 si fa discorso più ampio, quasi universale: ci parla del tempo che passa ma senza derive da malinconici rincoglioniti che rimpiangono il passato che fu. Qui c’è commozione ma è commozione sincera, matura, diremmo condivisibile. C’è riflessione sullo scorrere del tutto, sull’impossibilità di bagnarsi due volte nello stesso fiume.
Il film, si diceva, ha i consapevoli crismi del Classico, a cominciare dall’impatto estetico: sono finiti i tempi (Cars) in cui Lasseter e soci smaniavano per annichilire il mondo con un sovraesposto (stra)potere tecnologico. Il tripudio di riflessi e rifrazioni sulla carrozzeria di Lightning McQueen erano decisamente troppi/o e sconfinavano allegramente nel gratuito. Qui tutto è più preciso, misurato, permeato dell’atarassica consapevolezza di chi non ha più nulla da dimostrare. Alla regia, non a caso, c’è un ottimo tecnico (co-regista e montatore storico Pixar) che fa tutto (bene) fuorché strafare con pirotecnici virtuosismi o movimenti di macchina impossibili, prediligendo piuttosto una regia tradizionale che, al limite, cita certo cinema classico con qualche carrello laterale messo al posto giusto. Ma è nel comparto scrittura che vengono calati gli assi: c’è l’esordiente Arndt (teniamolo d’occhio), c’è il capoccia John Lasseter, certo, ma c’è anche e soprattutto quell’Andrew Stanton che ha scritto una delle migliori sceneggiature di sempre (Alla ricerca di Nemo) e ha confezionato lo stupefacente primo segmento di Wall-E (che poi degenera un po’, ma questa è un’altra storia). E Toy Story 3 fa proprio della sceneggiatura e, più in generale, delle “idee” la sua arma finale e definitiva: il film è un congegno quasi perfetto, dove leggerezza, suspense, sorprese, elementi lapstick e virate dark, comicità e commozione compongono un mosaico che non lascia fiato e scampo, fino all’inevitabile happy ending che arriva dopo pochi, interminabili minuti di compiaciuto magone e che è comunque venato di crepuscolare tristezza. Presenti i soliti marchi di fabbrica citazionisti (il prison movie tutto, il finale de Il Ritorno dello Jedi, mille altre cose) e autocitazionisti (nel Sunnyside, per dire, è malcelato un piccolo bestiario Pixar) mentre gustosissime sono le new entries (Barbie e Ken) che chiariscono con spietata leggerezza molte cripto-verità scomode. Ma siamo nell’accessorio. La sostanza è Alt®a.
(Particolarmente raffinato il solito corto inaugurale, nel quale si manipola con rinnovata inventiva il buon vecchio split-screen, viene instaurato un proficuo dialogo tra animazione classica/contenente e animazione digitale/contenuto e, soprattutto, si riesce nelle difficile impresa di trovare l’alba dentro l’imbrunire).
Come sempre nelle ultime uscite cinematografiche della Pixar il lungometraggio principale è preceduto da un cortometraggio realizzato dalla casa di produzione più o meno legato al film; scelta che rimarca una volta di più quel rapporto col tempo che la fabbrica messa in piedi da John Lasseter non esita mai a sottolineare e che in questo caso riprende i contatti con il cinema classico e con l'epoca dello spettacolo cinematografico misto, variegato e scomponibile quando, uno dopo l'altro, si succedevano cortometraggi, cinegiornali, cartoons e infine il lungometraggio. Il corto iniziale è, come al solito, molto divertente, accattivante nella sua dinamicità e capace di comunicare con lo spettatore, adulto o bambino che sia, esclusivamente con le immagini, degno del miglior cinema muto. La qualità principale è probabilmente quella di anticipare fin dal titolo (Day & Night) quello che sarà il tema principale del lungometraggio adiacente: il tempo, il suo scorrere e le conseguenze del suo incessante fluire.
Ebbene, Toy Story 3 è la vera prova di forza della Pixar, il primo della classe che si mette sotto esame aumentando in modo esponenziale il quoziente di difficoltà; e lo supera. Negli ultimi anni, ed in particolare negli scorsi due, osservatori, critici e, ormai, storici del cinema si sono dovuti inevitabilmente inchinare ad un fenomeno che con Wall-E è arrivato all’apogeo della sua crescita artistica e che ha avuto in Up il suo punto di massima catalizzazione. Luci della ribalta durate quattro mesi ininterrottamente, dall’apertura del festival di Cannes – con tanto di celebrazione del 3D – fino alla giornata Pixar nella prima domenica alla Mostra del cinema di Venezia, in occasione del Leone d’oro alla carriera a John Lasseter e alla sua industria – il momento più alto vissuto al Lido lo scorso anno. In quella stessa occasione sono anche state poste le basi per la successiva, ambiziosa sfida: durante la cerimonia di premiazione è stato proiettato un montaggio embrionale di alcune scene di Toy Story 3. Non solo la Pixar ha raggiunto un grado di maturità e di consapevolezza artistica tale da potersi permettere un nuovo sequel di un lavoro rivoluzionario per il propri tempi (Toy Story), ma quasi vetusto rispetto agli ultimi lavori; più di ogni cosa però John Lasseter e co. riescono a fare di Toy Story oltre che il simbolo del proprio marchio di fabbrica e della propria fondazione, soprattutto il termometro della propria evoluzione, la cartina di tornasole della maturità artistica della Pixar. Con quest’ultimo lavoro Woody, Buz e compagni chiudono il cerchio testimoniando il punto d’arrivo di un fenomeno artistico inimitabile con le stesse facce con cui questo era cominciato. Il tempo è da sempre stato il centro nevralgico della poetica di casa Pixar, in particolare declinato nei rapporti tra vecchio e nuovo, classicità e modernità, mito di fondazione e avanguardia.
Fin dal meraviglioso incipit le carte in tavola sono estremamente chiare: il dialogo col cinema si inserisce in queste dialettiche in modo ficcante con una sequenza ambientata nella Monument Valley (simbolo per eccellenza della fondazione di un certo cinema americano classico e degli Stati Uniti d’America tout court), allacciando il nuovo film (diretto questa volta da Lee Unkrich) al passato, con un collegamento che mette in analogia la celebre valle fordiana con le facce dei protagonisti associando l’ultimo stadio evolutivo della Pixar al suo inizio, alla sua fondazione.
La sequenza successiva opera un ipotetico salto temporale diegetico che da solo conferma già lo spessore dell’opera: tutto ciò che è apparso sullo schermo fino a quel momento si rivela essere una registrazione di un passato quasi remoto, in cui i giocattoli e il loro proprietario si immergevano in un estasi ludica fantastica e onirica. Dal treno che squarcia la wilderness della Monument Valley alla videocamera digitale che riporta alla luce un tempo che non esiste più – senza contare che all’interno della diegesi del filmato al classico treno si affianco la moderna auto da corso guidata dagli alieni, sineddoche della rivoluzione compiuta dalla Pixar nell’alveo del cinema d’animazione. Forbice temporale dilatata a dismisura a scopo unicamente significante, con valenze diegetiche e extradigetiche. La fabula ci dice che il tempo in cui le dialettiche tra fantasia e realtà (e in secondo grado anche tra arte e vita) erano generate dal rapporto ludico e fantastico di Andy con i suoi giocattoli è passato. Il ragazzo è ormai quasi un adulto, si appresta ad andare al college e per i suoi storici compagni di vita si prospetta una dimensione radicalmente nuova.
Il tempo passato, perduto, sprecato, immerge i protagonisti dell’opera in un’atmosfera crepuscolare che carica il film di tensioni e dilemmi morali ed esistenziali sconosciuti ai due precedenti episodi della trilogia.
L’incedere del tempo agisce sul ragazzo solo come espediente. Il vero centro del film sono i giocattoli e la loro condizione di diseredati in un’età che non è più la loro. Toy Story 3 incamera in questo modo le tematiche dei due precedenti capolavori della Pixar facendo della solitudine e dell’abbandono i nuclei di riflessione ai quali i protagonisti non possono sottrarsi. Anche il plot superficiale che vede la dicotomia tra i toys buoni e quelli cattivi ha nell’abbandono e nella perdita la sua matrice generativa. Diventa di cruciale importanza la figura dell’orso rosa Lotso, solo ad un primo livello interpretativo personaggio egoista individualista e senza scrupoli. Gli autori gli dedicano un’attenzione introspettiva di notevole rilevanza facendo scaturire la sua natura malvagia da un passato fatto di sofferenza e abbandono, disegnando in questo modo anche l’altra faccia della medaglia iniziata con Up. Se nel film diretto da Pete Docter e Bob Peterson il protagonista trovava nella propria forza interiore e negli stimoli esterni (la vitalità del giovane amico) la forza per reagire alla perdita della moglie defunta, in Toy Story 3 Lotso reagisce all’abandono della sua padrona con un comportamento uguale e contrario.
Un crogiolo di tematiche, generi (commedia, horror, road movie, slapstick comedy) e stratificazioni che fa di Toy Story 3 un film molto ambizioso e, come ormai spesso capita ai lavori della Pixar, perfettamente riuscito.