TRAMA
Celebre produttore televisivo oramai decaduto, dopo un lungo periodo all’estero Joachim torna in Francia al seguito di uno spettacolo di teatro burlesque.
RECENSIONI
Nel suo quarto lungometraggio da regista (cui si aggiungono diversi corti e lavori per la televisione) Amalric riesce a consegnare un ritratto vero e palpitante di un mondo in movimento, fatto di diversi umori e incertezze, che vive in contesti labili e anonimi (scompartimenti di treni, hall di alberghi, camerini di teatri), un cosmo in continua transizione che riflette l’instabilità esistenziale del protagonista Joachim che, tornato in Francia in cerca di un riscatto professionale ed esistenziale - ambiti segnati da differenti e concatenati fallimenti -, si scopre costretto a combattere ancora con quel passato che aveva lasciato alle spalle, un passato col quale non ha mai avuto la forza di confrontarsi in maniera aperta ed onesta. Il film segue dunque i due percorsi: quello della brigata di donne che, sotto la guida del paternale Joachim, mette su lo spettacolo di teatro burlesque (una forma di rappresentazione rivolta in primis a un pubblico femminile in cui la donna sul palco si afferma come artista autonoma e affrancata, i cui caratteri femminili, condotti volutamente all’eccesso, risultano pienamente gestiti e mai degradati: in questo senso le rivendicazioni delle protagoniste nei confronti del direttore artistico rispecchiano in pieno il carattere anche politico della questione), e quello personale di Joachim che, di nuovo in terra natia dopo una permanenza negli USA, cerca, anche per necessità (dopo il giro in provincia vorrebbe portare lo show nella capitale), di ricucire i contatti (tra cui quello con il suo antico socio: a tal proposito la frase Tu te comportes comme une merde sur un socle cita la famosa lettera di Truffaut a Godard), svolgere il suo ruolo di padre, ritrovare (ma con la stessa sprovvedutezza di sempre) la comprensione, se non l’affetto, di un nucleo familiare che ha condotto allo sfascio. Alla constatazione del disastro esistenziale fa riscontro la crescente consapevolezza dell’appartenenza a una nuova e anticonvenzionale famiglia: la compagnia teatrante, nel suo fragile e mutevole presente, come sancito dalle ultime immagini, si propone come la sua effettiva casa, il suo rifugio, la sua (aleatoria) sicurezza.
Amalric, che impersona da par suo il protagonista, è molto abile nel coniugare i due livelli del film: i rapporti giocosi, le notti piene di luci dello spettacolo itinerante, il dietro le quinte, disincantato quanto malinconico, fatto di condivisione, litigi, confessioni e flirt e quello più apertamente drammatico ed intimo della parte apertamente personale. Avendo familiarità anche con la forma documentaria, il regista mette in crisi spesso la messa in scena attraverso inserti non finzionali (gli spettacoli inventati dalle stesse starlette e rappresentati di fronte a un pubblico vero, molti dei siparietti) raggiungendo, nell’operare tale ibridazione, un notevole equilibrio, non palesandosi mai l’ombra di un calcolo, fidando su una scrittura disinvolta, mai marcata, su un parco di attori meravigliosamente (e naturalmente) partecipi.
Ispirato da L’envers du music-hall, gli scritti in cui Colette descrive il dietro le quinte della sua vita di attrice al seguito di una compagnia, Tournée è un film disordinato per vocazione e vitale nello spirito, la cui libertà ricorda Cassavetes (anche nelle modalità di descrizione del rapporto di Joachim con i figli), in cui la mescola di toni – comico, amaro, drammatico – viene a pennellare un mondo a sé la cui identità, di tappa in tappa, acquista sempre maggiore definizione, senza l’urgenza di seguire una narrazione pedante, cavalcando spesso e volentieri un’improvvisazione, un’intuizione fulminea, un momento di verità non programmato: Tournée, insomma, riesce, non essendo un documentario e nello stesso tempo non esaurendosi nella semplice finzione, a utilizzare elementi dell’uno e dell’altra, costruendo un racconto deviato, ma preciso e aderente, della realtà che decide di prendere in esame.
Premio alla regia a Cannes 2010.
Tutti lo pensano (solo) un grande attore, ma Mathieu Amalric ha iniziato la propria carriera dietro la macchina da presa, facendo la gavetta con il produttore Paulo Branco, poi è stato aiuto regista e autore di corti: questa è la sua terza prova nel lungometraggio e largamente la più apprezzata dalla critica. Opera ibrida e anomala che, mentre racconta la vita incasinata del protagonista, si concede molti sguardi dietro le quinte (soggettiva del manager) e davanti nel proporre gli splendidi numeri sexy-cabaret di queste (vere) artiste del new burlesque, riuscendo a restituirne la carica vitale (fonte di ispirazione dichiarata anche il romanzo “I retroscena del music hall” di Colette). La struttura è episodica e vacua, la vicenda non ha centro nevralgico, ma il regista possiede senz’altro una poetica ben definita, uno stile alla Desplechin, in cerca di ellissi di senso all’interno di innumerevoli spunti e passaggi evocativi “on the road”, fra un albergo e l’altro, di teatro in teatro: si giunge infine, per fortuna, ad una sorta di parabola, non di senso compiuto, ambigua e fumosa ma con qualche parvenza intellegibile, su di un uomo rigettato da ex-soci di successo, da ex-moglie e figli abbastanza ostili che si sente a casa nella frenesia (di un mestiere e di un’arte) che non gli lascia il tempo per pensare. Altra zona di interesse per l’opera è la show-girl Mimi che gioca, forse, il ruolo-chiave per un lieto fine, se mai quell’ambigua lacrima che ne solca il viso nell’epilogo fosse di gioia. Nel rapporto manager e artiste sui generis Amalric ha confessato di aver pensato ad Assassinio di un Allibratore Cinese di Cassavetes, ma c’è molto anche del mitico California Dolls di Aldrich.