TRAMA
Jeliza-Rose rimasta orfana per la morte di entrambi i genitori, si trova sola in un mondo con pochi, strani abitanti.
RECENSIONI
Grottesco in continua tensione tra vette di poesia che oscurano la struttura sottostante e momenti di programmaticità evidente, disturbante più di quanto messo in scena, Tideland rivisita suggestioni letterarie ormai divenute archetipi deformandole secondo l’estro di Gilliam, che trova nel romanzo di Mitch Cullin il celeberrimo pane per i propri denti, con quella follia disseminata in personalità implose nella caricatura e quelle suggestioni che da sempre lo affascinano, dal sogno donchisciottesco all’esplorazione di nuovi mondi e dimensioni in costante tensione verso la sovrapposizione. La schizofrenia è padrona incontrastata: doppi vincoli senza sfumature a giustificare le distorsioni comunicative e percettive della novella Alice [1], livelli di realtà che, focalizzati nello sguardo della protagonista, divengono indistinti, fruizione spettatoriale che contratta la repulsione indotta da certe prevedibilità e ingenuità del disegno con l’attrazione inevitabile di fronte a momenti emotivamente coinvolgenti. Lo stesso dicasi per le scelte stilistiche di Gilliam, i cui stilemi (quadri deformati dal grandangolo, sghembi, plongèe a go go, composizione densa, perennemente espressionista) paiono alternare l’ovvietà manieristica ad una reale efficacia espressiva, la gratuità evidente all’adesione al narrato. In perenne bilico tra il meraviglioso e il perturbante [2], Tideland è una fiaba surreale, malsana, pure profondamente inquietante, straziante, a volerlo: quello di Gilliam è un cinema con cui cronicamente patteggiare non solo la sospensione dell’incredulità, ma anche la tensione emotiva, minata da una prolissità tipica dell’autore, scegliendo tra l’immersione ignara (consapevolmente o meno) dei difetti della costruzione e il rigetto stizzito. Il voto è la media degli opposti.
Un film di Terry Gilliam che sembra tratto da un romanzo di J.T. Leroy. Strisciamo sullo stesso terreno: citazioni fiabesche, personaggi deviati, circostanze provocatorie e soprattutto 'situazioni turpi viste con gli occhi di un bambino' con conseguente e spiazzante azzeramento della morale. Il personaggio Jeliza-Rose innesca un cortocircuito inquietante: forse la fanciulla non sa cos'è la droga? e la pedofilia? e l'infermità mentale? oppure ne è consapevole e, peggio ancora, ha già realizzato in sé la loro accettazione? Nodi ingarbugliati che non toccano lo spettatore: questo è solo proiettato in tale distorta visione delle cose, diventa ospite di luoghi strani e meravigliosi, viene chiamato a settare le manopole interiori su diversi criteri valutativi e ingoiarne il relativo disagio. Nella società di Gesù e della Famiglia piantarsi una siringa endovena non è malvagio, anzi suona proprio bene: dunque la prole armeggia con gli arnesi e prepara la dose per papà. Tutto questo per dire, semplicemente, che Gilliam torna Gilliam: dopo un lavoro per il mercato mesto e indolore, fintamente metalinguistico ma in realtà accidioso, comprensibile e confortante, insomma inutile come The Brothers Grimm, ecco finalmente qualche spicciolo dell'autore che ci piace. E' un paradosso ma i due film giocano in equilibrio sul medesimo confine: la linea di separazione fiaba/reale, con forti oscillazioni grottesche, venature horror, derive freak e improvvise rivelazioni sul presente. Narrare e i suoi abissi. Con addendi simili, risultati distanti: abbiamo un film malsano, contraddittorio e accumulativo, che respinge la regolarità e si accende a fiammate, sfugge ogni controllo e vaga impazzito nelle correnti della mente, si accartoccia e dispensa infine lucidi richiami alle 'cose serie'. Prendiamo i minuti finali. Qui per la prima volta i due sguardi (bimbo e spettatore) divergono, rientra la trasfigurazione dominante e l'oggettistica magica perde di incanto: la bomba atomica è solo un fascio di dinamite, lo squalo gigante è solo un treno in corsa che scoppia. Non basta, perchè il punto di visione continua a slittare vorticoso e torna sulla giovane; per lei gli aliti di fuoco, residui dell'incendio, sono sagome di lucciole che si librano nel cielo. Ultima inquadratura sui suoi occhi innervati di luce e poi dissolvenza. Ecco l'inganno di Gilliam, ormai manifesto in una chiusura perfetta a incrinare l'intreccio blindato e mostrarne le venature sottopelle, riportando direttamente alla verità, strappando il velo sul finale: la descrizione di un attentato. Tideland è insomma sbilanciato, traballante e diseguale: ripassa molte situazioni stratipiche a un passo dalla noia, temporeggia parecchio nella fase centrale, sembra non avere più nulla da dire, la tira per le lunghe e dura mezzora di troppo. Ma è un film di Gilliam, profondamente 'suo'. E stavolta il regista fa ciò che vuole (anche niente, perché no), ci truffa allegramente e deposita ai posteri un inizio e fine memorabili. Alice incontra Psycho all'ombra della scomoda realtà: pedofilia, necrofilia, follia. Temi ruvidi e amari sottintesi che arrivano talvolta con violenza, talvolta sfilacciati e trattenuti; ma ci sono, tanto basta. Magari fosse capovolto, invece il mondo è questo e non c'è favola che tenga.